sabato 19 settembre 2020

Diari d'estate


Quando ero bambina, la prima tramontana di settembre mi spezzava il cuore. 
Ricordo chiaramente una mattina di quasi trent'anni fa, a Varazze mi pare, che nuotavo con la maschera scrutando i fondali. Fuori c'era vento, l'acqua era fredda, mamma leggeva in spiaggia seduta sull'asciugamano con disegnato lo zodiaco. Ogni tanto riemergevo, mi guardavo attorno e cercavo di fare tesoro di quel momento, giurando a me stessa che lo avrei ricordato per sempre. 

Ha funzionato.

Qualche anno dopo, ormai adolescente, le prime settimane di settembre significavano ritorno a scuola... che dramma! All'università erano sinonimo di esami, fino alle malattie di papà e mamma, che iniziarono a mostrare la loro terribile faccia proprio a fine estate. 
Quest'anno ho ricominciato a fare pace con il periodo, vivendolo come il preludio di un nuovo inizio: il lavoro che lascia poco tempo alle ferie non permette di affezionarsi alle giornate lunghe, ai risvegli lenti, alle cene in giardino, alle passeggiate di lunedì anziché di domenica.

In questa estate strana, trascorsa per lo più a casa se si escludono cinque giorni in montagna, ho pensato poco e ricordato tanto. Dedicandomi a sistemare le stanze e a svuotare la cantina era inevitabile.
Ho ritrovato di tutto, dai miei vestiti di neonata ai libri di scuola dell'intera famiglia, nonni compresi. Ho scovato tre enormi valvole da radio d'epoca di mio padre, le prime tv in bianco e nero che avevamo a Crevari, un remo da barca, dei vassoi di legno che mi porterò a casa in centro, i giochi da tavola, mille pupazzi, decine di libri e fumetti, due lampadari, tante piastrelle, un macinino da caffè, i moonboot di pelo vero, due valigie, i disegni dell'asilo, un materassino, persino un microscopio.

Ma quello che proprio non mi aspettavo di trovare erano i diari di mia madre. Non sono i primi ad essere saltati fuori: l'anno scorso, poco dopo la sua morte, mi imbattei nel quaderno nero che aveva riempito di dolore quando morì mia nonna, la sua, di mamma. Poi, appena arrivati a Vesima a inizio giugno, scovai in fondo a un cassetto un piccolo taccuino blu, con lunghe e faticose riflessioni sulla sua vita, in particolare sui suoi anni da donna vedova. Leggere quelle parole mi fece malissimo, com'era prevedibile risvegliò sensi di colpa e profondo disagio.

I diari della cantina, invece, sono stati una benedizione. 
Scritti ogni giorno, dal 1970 al 1973, su agende brutte e anonime, regalatele da mio padre approfittando del lavoro di rappresentante di cancelleria del nonno. Centinaia di pagine scritte da una ragazza che stava studiando, che si laureava, che iniziava i preparativi per il matrimonio. Centinaia di pagine di lavoro nei campi, di domeniche a messa e al cinema, di serate a leggere al freddo, di lunghi viaggi in autobus, di pranzi operai, di chiacchiere con il baracchino tra giovani radioamatori, di lezioni private a bambini di campagna, di fratelli a militare. Ma anche centinaia di pagine di attentati delle BR davanti alle scuole, di comizi di Berlinguer, di edizioni di Sanremo, di Olimpiadi, di Rischiatutto e di saldi da Bagnara. Ma, soprattutto, centinaia di pagine di sogni e futuro, di amore e speranza, di progetti e impegno.

Sono abbastanza certa che l'ordine con cui ho trovato i diari non sia stato casuale: prima, in bella vista, mi ha lasciato la guida di una figlia che ha perso la mamma a una figlia che ha perso la mamma.
Poi, ben nascoste tra i vestiti, mi ha lasciato le parole più difficili, per farmi entrare nelle sue fatiche sempre affrontate con dignità e forza.
Infine, dove sapeva sarei arrivata all'ultimo, mi ha fatto trovare la storia da cui sono nata, l'amore dei miei, le radici dell'educazione che ho ricevuto, le basi di me stessa, come donna e come persona.

Non c'era modo migliore per raccontare questa estate strana, che scrivere di una piccola grande storia ritrovata in cantina.