giovedì 24 dicembre 2020

Il fantasma dei Natali passati



Ci prepariamo a un Natale diverso, lontano dai parenti più cari, dagli amici, dai viaggi, dai ristoranti, dagli scambi di regali in stanze calde, affollate e illuminate a festa.

C'è chi si strugge, chi ci gode, chi si arrabbia con chi si strugge, chi si arrabbia con chi ci gode, chi si arrabbia e basta.

Io, come credo molte persone, sto in un'altra categoria: quella di chi prende atto. Sono abituata a farlo, non mi pesa e non credo nemmeno di aver voglia di chiedermi il perché. Capisco ogni punto di vista, ne condivido pochi, ne invidio molti.

Questo sarà il primo Natale nella Casa sull'Albero, finalmente quasi finita e saremo in tre: io, Andrea e Agata. Mangeremo pesce comprato in centro storico, non ci scambieremo regali perché abbiamo deciso di spendere in acquisti per vivere meglio in questo mini appartamento. 

Da qualche settimana, su Instagram, faccio un esercizio ogni sera: scrivo tre cose positive successe nella giornata e le abbino a una foto e a una canzone. É il mio modo per trovare il buono, motivarmi e cercare la bellezza prima di dormire. La mia personale #listanotte che non vuole insegnare niente a nessuno se non a me stessa.

Su questa scia ho pensato di complicare l'esercizio e riflettere sui Natali passati, provando a ricordare le cose belle che ci sono state. 
Chiaramente non ho intenzione di riesumare trentotto anni di alberi e lucine, ma qualche immagine felice mi viene in mente senza fatica. Tutta questa lunga premessa per dire: beccatevi sto elenco delle dieci cose belle dei Natali passati!

1. Sono nata subito dopo Natale, chissà che facevo il 25 Dicembre del 1981. Mi piace pensare che abbia cercato di restare dentro a mangiare panettone e ravioli finché ho potuto.

2. Le Barbie degli zii: una certezza durata anni, senza case di plastica, ma con i divanetti di legno. Dalla Luce di Stelle alla Fior di Pesco passsando per tutta la Famiglia Cuore al completo, con ferrari e cavalli al seguito.

3. Il mio gatto siamese, presente in tutte le foto sotto l'albero, accovacciato tra palline e regali, pronto a pisciare sulla moquette.

4. Le VHS Disney, il regalo tradizionale di un amico di mia madre che per una decina d'anni mi ha riempita di cartoni animati e di scherzi.

5. Il presepe di Papà, in parte meccanizzato da lui, in parte decorato da me e mamma, così bello che vinse pure un concorso. Alla premiazione, manco a dirlo, dovetti andare io, totalmente incapace di stare al centro dell'attenzione e in preda a una crisi d'ansia. Ho ritrovato la pergamena questa estate in cantina, quanta tenerezza...

6. Centomila ravioli, impastati sulla madia e tagliati da me con la rotellina. Mi toglievo la fame mangiandoli crudi, tra le minacce dei miei, mentre il sugo per condirli pipettava sul fuoco.

7. Le gite al presepe di Crevari, categoricamente a piedi per digerire, a osservare con gli occhi felici l'immenso lavoro di tutta la comunità. Il tuono, la pioggia sul mare, il tramonto, la neve, le luci delle case che si accendono e le musiche, sempre le stesse, sempre diverse.

8. Il cinema, il 24, il 25 o il 26, rigorosamente con mamma, a guardare e riguardare lo stesso film per tutto il pomeriggio. Poi cioccolata calda con la panna e via.

9. Il ramo addobbato con le palline di ceramica fatte al corso con i bambini del mercoledì. Lo abbiamo tagliato assieme due anni fa, nella fascia di fronte a casa e appeso in salotto. L'ultima occasione, la più dolorosa, ma anche il ricordo più bello del 25 dicembre 2018.

10. I pranzi dell'anno scorso con gli zii, i miei e quelli di Andrea, dove ancora mi sentivo in una bolla e non riuscivo a esserci anche con la testa, ma ero sollevata all'idea che da quel Natale in poi le mie radici sarebbero state per sempre con me, senza avere paura, senza sentire dolore.

In questo lungo elenco non ho scritto tante cose, ma in realtà avrei molte altre occasioni belle da ricordare. I Natali con i vicini, quelli nelle case dei vecchi amori, pieni di gente, di cibo, di usanze diverse dalle mie, l'insalata russa di Mario, la vigilia dell'anno scorso, passata sui monti a mangiare focaccia di Priano e mandarini. Ho però deciso di lasciare fuori le malattie, le somatizzazioni delle feste, le ultime consapevolezze dei miei genitori, così dolorose che non solo non riesco a scriverle, ma nemmeno a pensarle. 

Quindi, alla fine, voglio augurarmi Buon Natale e augurarlo a voi che mi leggete da tanti anni, da pochi mesi, per la prima volta o per l'ultima. Che quest'anno, gli auguri, servono più di sempre. A tutti.


sabato 28 novembre 2020

E ti vengo a cercare


Musica.
È trascorso ormai più di un anno e mezzo da quando mi ha sussurrato le ultime parole tutte nostre, ora incise sul mio ciondolo in argento, che non tolgo mai.

In questi lunghi mesi ho atteso paziente che diminuisse il dolore, quello che tormenta giorno e notte, che spezza il fiato e le gambe. Pian piano è accaduto e, al suo posto, sono arrivati il senso di colpa e la consapevolezza che la mia vita non sarà mai più quella di prima.
All'inzio la sognavo sempre, malata
, sofferente con mio padre ad aiutarla come poteva. La sognavo arrabbiata, imprudente, a volte persino cattiva. La sognavo con i primi sintomi e trascorrevo la notte terrorizzata da una diagnosi e da una fine che conoscevo già.

Ora le cose sono un pochino cambiate, la sogno sana e in procinto di ammalarsi di nuovo, perché anche mentre dormo non dimentico mai che è successo, aspetto solo che succeda ancora. In uno degli ultimi sogni si ammalava di Covid e ricordo che gridavo, disperata, "li ho già persi entrambi, non può riaccadere!".
L'interpretazione della mia mente contorta è, fortunatamente, terreno dell'analista, c'è da dire che negli ultimi quindici anni le ho dato un gran lavoro da fare.

Ogni tanto mi capita ancora di immaginare mamma dietro alle vetrine del MadLab, che passa a trovarmi al lavoro dopo aver saccheggiato il mercato giallo del giovedì. Vedo il suo sorrisone, così simile al mio, il piumino azzurro, le scarpe da trekking, la borsa a tracolla e penso: è tornata!
Perché in uno dei sogni peggiori, forse il più terribile che abbia mai fatto, la incontravo per caso e lei fingeva di non conoscermi. La imploravo di parlarmi e mi rispondeva che non era morta, si era solo stufata di tutto e voleva ricominciare altrove, libera da me, dai ricordi, dalla vita difficile e solitaria che le era toccata in sorte.
Che se ci penso bene, alla fine, saperla viva anche se lontana, mi farebbe molto meno male.

Forse è per questo che la vado a cercare, di notte a occhi chiusi, di giorno a occhi aperti, mentre scelgo le piante nuove, cucino le verdure, cammino nei vicoli, appendo la stampa dell'airone, leggo un libro, ascolto la musica. La vado a cercare per non smettere di pensarla, la sua più grande paura, per farla tornare, in qualche modo, ogni volta che voglio.

Oggi, per esempio, in una Vesima fredda e quasi buia, ho trovato il suo giardino sconvolto dal vento, le piante di casa quasi morte, la corrente saltata e il frigo sciolto in cucina. Ho pensato a tutti gli anni che ha trascorso lì da sola, in inverno, osservando il mare grigio che ha dato il nome a questo blog. Ho immaginato i suoi pensieri, lo sgabello su cui poggiava i piedi per lavorare a maglia dopo cena, con Agata sulle ginocchia. Ho pensato al suo eterno bisogno di uscire, di andare al cinema, a teatro, di fare lezione di italiano, di seguire il corso di arte, di camminare per le vie del centro o per i sentieri dietro casa.
Sono andata a cercarla e ho capito tutto.
L'ho trovata,  ma quanto male mi ha fatto.

P.S. Nella foto, la camera da letto che cresce e si moltiplica.

sabato 19 settembre 2020

Diari d'estate


Quando ero bambina, la prima tramontana di settembre mi spezzava il cuore. 
Ricordo chiaramente una mattina di quasi trent'anni fa, a Varazze mi pare, che nuotavo con la maschera scrutando i fondali. Fuori c'era vento, l'acqua era fredda, mamma leggeva in spiaggia seduta sull'asciugamano con disegnato lo zodiaco. Ogni tanto riemergevo, mi guardavo attorno e cercavo di fare tesoro di quel momento, giurando a me stessa che lo avrei ricordato per sempre. 

Ha funzionato.

Qualche anno dopo, ormai adolescente, le prime settimane di settembre significavano ritorno a scuola... che dramma! All'università erano sinonimo di esami, fino alle malattie di papà e mamma, che iniziarono a mostrare la loro terribile faccia proprio a fine estate. 
Quest'anno ho ricominciato a fare pace con il periodo, vivendolo come il preludio di un nuovo inizio: il lavoro che lascia poco tempo alle ferie non permette di affezionarsi alle giornate lunghe, ai risvegli lenti, alle cene in giardino, alle passeggiate di lunedì anziché di domenica.

In questa estate strana, trascorsa per lo più a casa se si escludono cinque giorni in montagna, ho pensato poco e ricordato tanto. Dedicandomi a sistemare le stanze e a svuotare la cantina era inevitabile.
Ho ritrovato di tutto, dai miei vestiti di neonata ai libri di scuola dell'intera famiglia, nonni compresi. Ho scovato tre enormi valvole da radio d'epoca di mio padre, le prime tv in bianco e nero che avevamo a Crevari, un remo da barca, dei vassoi di legno che mi porterò a casa in centro, i giochi da tavola, mille pupazzi, decine di libri e fumetti, due lampadari, tante piastrelle, un macinino da caffè, i moonboot di pelo vero, due valigie, i disegni dell'asilo, un materassino, persino un microscopio.

Ma quello che proprio non mi aspettavo di trovare erano i diari di mia madre. Non sono i primi ad essere saltati fuori: l'anno scorso, poco dopo la sua morte, mi imbattei nel quaderno nero che aveva riempito di dolore quando morì mia nonna, la sua, di mamma. Poi, appena arrivati a Vesima a inizio giugno, scovai in fondo a un cassetto un piccolo taccuino blu, con lunghe e faticose riflessioni sulla sua vita, in particolare sui suoi anni da donna vedova. Leggere quelle parole mi fece malissimo, com'era prevedibile risvegliò sensi di colpa e profondo disagio.

I diari della cantina, invece, sono stati una benedizione. 
Scritti ogni giorno, dal 1970 al 1973, su agende brutte e anonime, regalatele da mio padre approfittando del lavoro di rappresentante di cancelleria del nonno. Centinaia di pagine scritte da una ragazza che stava studiando, che si laureava, che iniziava i preparativi per il matrimonio. Centinaia di pagine di lavoro nei campi, di domeniche a messa e al cinema, di serate a leggere al freddo, di lunghi viaggi in autobus, di pranzi operai, di chiacchiere con il baracchino tra giovani radioamatori, di lezioni private a bambini di campagna, di fratelli a militare. Ma anche centinaia di pagine di attentati delle BR davanti alle scuole, di comizi di Berlinguer, di edizioni di Sanremo, di Olimpiadi, di Rischiatutto e di saldi da Bagnara. Ma, soprattutto, centinaia di pagine di sogni e futuro, di amore e speranza, di progetti e impegno.

Sono abbastanza certa che l'ordine con cui ho trovato i diari non sia stato casuale: prima, in bella vista, mi ha lasciato la guida di una figlia che ha perso la mamma a una figlia che ha perso la mamma.
Poi, ben nascoste tra i vestiti, mi ha lasciato le parole più difficili, per farmi entrare nelle sue fatiche sempre affrontate con dignità e forza.
Infine, dove sapeva sarei arrivata all'ultimo, mi ha fatto trovare la storia da cui sono nata, l'amore dei miei, le radici dell'educazione che ho ricevuto, le basi di me stessa, come donna e come persona.

Non c'era modo migliore per raccontare questa estate strana, che scrivere di una piccola grande storia ritrovata in cantina.

sabato 25 luglio 2020

Si stacca di dosso la Terra


Ci siamo trasferiti a Vesima all'inizio dell'estate.
Agata si è ambientata benissimo: appena uscita dal trasportino, dove durante il viaggio aveva prontamente fatto i suoi bisogni, ha baciato Tobia e cominciato a marcare il territorio strusciandosi su ciascun vaso del giardino e annusando ogni angolo.

Qui le giornate trascorrono con un ritmo tutto loro, le mattine iniziano prima e così anche le notti, tra  rospi, grilli, il rumore costante del fiume e il profumo dei rampicanti fioriti.
Ceniamo fuori quasi ogni sera, illuminati dalle lanterne di carta e dalle lucine solari sparse un po' ovunque, usando quasi esclusivamente il BBQ e le verdure dell'orto... chi ci ferma più.
I cambiamenti, quelli veri, sono dentro casa (e pure un po' dentro al cuore): è giunto il momento di aprire armadi, scegliere vestiti, decidere cosa tenere, buttare, regalare. Si spostano mobili, quadri e libri, alcune stanze diventano altro e mini camere da letto si trasformano in zona cucito, dove ospitare anche il mobile pieno di ricordi ancora inaffrontabili e la postazione smart working per le poche volte in cui non vado in lab.

Purtroppo non riesco a vivermi Vesima quanto vorrei: grazie al traffico impensabile arrivo la sera stanca morta dopo i centri estivi e le ore di viaggio, quindi dedico il week end a tutte quelle faccende che in settimana restano inevitabilmente sospese. Appena giro la curva e vedo il mare, però, quando il sole tramonta e si alza un po' di vento salato, capisco subito perché sono tornata.

Ora è un anno e mezzo che non abito in un posto stabile, una parte dei miei vestiti è chiusa in scatole di cartone o appesa in guardaroba lontani, i cappotti sono ancora nell'ingresso e la biancheria in sacchetti di stoffa sparsi qua e là. All'inzio credevo fosse un momento necessario: avevo perso tutte le radici, come una pianta strappata dalla tempesta e nessuna parte di me voleva fermarsi a guardare dov'ero finita.
Mi sono impacchettata e portata da un appartamento all'altro, ho perso riferimenti e obiettivi, ho imbastito una ristrutturazione poi bloccata dal lockdown e non so nemmeno più dove ho messo le cose acquistate per la casa nuova.

Adesso, però, comincio a sentire la necessità di un posto dove stare, di stanze vuote da riarredare, di scaffali pronti ad accogliere i libri di sempre e quelli che verranno, mescolati agli oggetti di qualcun altro, che da questo uragano che è la mia vita è stato travolto quanto me.
Ho forse, finalmente, bisogno di stabilità? Probabilmente sono talmente spaventata che l'idea di ripartire con il rischio di essere di nuovo bruscamente interrotta mi fa troppa paura. La settimana scorsa erano quindici anni che è morto mio padre, sedici che ho scoperto di non avere la salute di ferro che credevo e, nonostante non sia ancora entrata negli anta, di anni me ne sento addosso almeno dieci di più.

Questo è quanto e, considerando i tempi e la vita, è già tanto. Me lo insegnano quotidianamente i bambini che seguiamo, quanto le radici possano essere precarie e sottili.

A dispetto della frase scelta per il titolo e presa da una delle canzoni di Cosmo che meglio riassume cosa sono stati gli ultimi mesi, direi che il brano giusto per raccontare il percorso iniziato a marzo dell'anno passato è questo. Una camminata in montagna che porta alla cima e che riparte, sempre più dura, ogni volta che mi sembra di essere arrivata nonostante il peso sulle spalle.
Buon ascolto, dunque, lo dico soprattutto a me stessa.

P.S. Nella foto quassù, una goccia di montagna, dove ci siamo rifugiati un paio di week end fa in compagnia degli amici matematici-pasticceri.






lunedì 4 maggio 2020

Indulgenza plenaria


Un post scritto piano piano, che riassume tutti questi giorni, con i pensieri in cui mi sono immersa, i miei soliti elenchi, la luce che dura fino a tardi, la pizza impastata nella cucina arancione, la gatta che piange di notte. Iniziamo.

Più di un mese di quarantena e ovunque si legge qualcosa in proposito. Pure qui.
Le mie giornate, come quelle di tutti, trascorrono l'una simile all'altra, ma il tempo scorre velocissimo, almeno per me.
Mi annoio? Nemmeno un po'.
Sono arrabbiata? No, non per la mia condizione. Certo mi preoccupa la situazione in cui ci troviamo e ci troveremo, soprattutto dal punto di vista economico. Mi spaventano le conseguenze che l'isolamento avrà sui più piccoli, perché quelle che già sta avendo sui più grandi non mi stupiscono affatto, purtroppo. I social sono ormai un calderone di polemica continua: c'è chi insulta il vicino che esce troppo, chi si lamenta di non poter passeggiare, chi auspica che la didattica a distanza sia finalmente sdoganata, chi la trova inefficace, chi addirittura dannosa. Tutti i politici sono colpevoli, ma anche i cinesi non scherzano. I medici sono eroi, ma ieri erano scansafatiche (e domani?). Le mascherine gratis in cassetta non le voglio, ma in farmacia costano troppo. I corrieri sono costretti a lavorare in condizioni pericolose, è una vergogna, ma la spesa me la faccio portare a casa tutto l'anno, figuriamoci ora.

Io sono equilibrata? Proprio no, sono solo più passiva del solito. Qualcuno direbbe resiliente, qualcun altro adattabile. Io, invece, dico passiva. Perché è così che mi sento quando una cosa grossa si abbatte sul mio quotidiano, senza darmi alcuna possibilità di scelta, tranne quella di stringere i denti, adeguarmi e non guardare nè davanti, nè dietro di me.
Il famoso qui e ora, che sono totalmente incapace di vedere in tempi "normali", diventa improvvisamente l'unico posto in cui riesco a stare nell'emergenza.
Un giorno dopo l'altro.

C'è da dire che per me è semplice, non ho genitori di cui preoccuparmi o che ora stanno lontani più del solito, non ho figli reclusi, non vivo più solo di partita IVA (ma sono in cassa integrazione, per fortuna), sono abituata agli stop forzati. Pare brutto, pare esagerato, ma l'anno scorso ho trascorso sette mesi come adesso. Uscivo solo per lavorare, nessun week end fuori, nessuna gita, nessun cinema. Ho incontrato medici che avrei ucciso a mani nude e medici (infermieri, oss, volontari...) a cui ho scritto appena iniziata l'emergenza virus per far loro sentire la mia riconoscenza anche in questa occasione. Ho avuto paura perché conoscevo già come sarebbe andata a finire e, nonostante questo, non ho smesso di mettere in fila un giorno dopo l'altro, a denti stretti. Mi ha aiutato la terapia, questo è sicuro, credo però che mi abbia dato una grossa mano anche l'indulgenza. Verso gli altri, si intende, perché verso me stessa non ne ho mai avuta.
Fino ad oggi.

Ed è qui che si spiega il titolo di questo post: la quarantena 2020 (meglio specificare) mi sta regalando l'indulgenza plenaria. Come il papa.
Sono trascorsi più di due mesi in cui mi sono permessa lentezza e sole in faccia, anche se attraverso una finestra chiusa.
Ho girato decine di video davanti a telecamere, webcam, telefoni cellulari che per una con una vecchissima diagnosi di fobia sociale, sembra impossibile. Ho provato nuove ricette, mi sono iscritta a un corso di acquerello botanico, ho letto tantissimo. Ho fatto yoga o pilates tutti i giorni, ho ascoltato la musica che mi piace, ho visto un sacco di serie tv, alcune belle davvero. Credo di aver messo il reggiseno tre volte, giusto per andare in ufficio le poche mattine che ce n'è stato bisogno. Ho scritto, anche se non qui, mi sono regalata un ciondolo con tre parole importanti, le più importanti di tutte. Ho rivisto gli amici lontani su Zoom e pure quelli vicini. Ho pianto per la Maria, per la sua casa dove non posso andare, per i fiori al cimitero che non posso cambiare e la festa in suo onore che non sono riuscita a organizzare. Mi sono comprata poche cose, ma quelle che ho preso mi hanno fatto stare bene, ho reinventato ancora una volta il mio modo di lavorare e mi sono divertita a farlo. Non ho alimentato nessuna polemica in cui sono incappata, ho messo la mascherina quando mi sembrava giusto, ho goduto di tramonti spettacolari, ho sistemato dieci anni di documenti conservati a caso, ho dormito, male, ma ho dormito.

Avrei potuto fare molto di più, ma anche no.

Avrei potuto studiare più cose, leggere più libri, allenarmi più a lungo, vestirmi bene anche per stare in casa, truccarmi comunque ogni giorno, mangiare meglio, bere meno. Avrei potuto anche non sentirmi mai in colpa, ma poteva andare molto peggio, potevo sentirmi in colpa sempre. Credo di essere stata indulgente e di aver ascoltato i miei bisogni, ogni giorno diversi. Non mi sono sembrati scemi quelli che non si sono allenati, che si sono lamentati, che sono usciti lo stesso, che si sono barricati in casa, che hanno cambiato il loro modo di mangiare o che si sono scannati sui social. Li ho ignorati, ho provato a fare il meglio che potevo e mi è sembrato abbastanza. 
Tutto qui.





martedì 17 marzo 2020

I ricordi sono tutto ciò che non vuoi più ricordare


Inizio questo post sdraiata su un prato, con il sole in faccia e gli amici accanto. Siamo in quattro, abbiamo preso l'auto sta mattina presto, abbiamo cambiato itinerario all'ultimo per evitare spostamenti potenzialmente a rischio e siamo saliti a piedi da Pieve a Santa Giulia.
Sopra di noi, nel cortile della chiesa, ci sono comitive forse troppo numerose, ma meglio qui, all'aria aperta, che chiusi in un ristorante per il pranzo della domenica.

Mi sono chiesta spesso cosa avrei scritto nel post dell'anniversario. Pensavo che avrei raccontato i dodici mesi senza di lei, che avrei provato ad analizzare i (pochi) libri letti, che avrei fatto il resoconto della piccola festa organizzata per ricordarla.
Alla fine, come al solito, la vita cambia tutto. Il Covid-19 ha ribaltato un po' di prospettiva e le restrizioni mettono a dura prova tutti, non tanto me che sono più asociale della mia gatta, quanto chi è abituato a viaggiare per lavoro, a uscire in gruppo, a portare i bambini ai giardini, a trascorrere serate nei locali, ad andare a scuola o in palestra.

Nel frattempo sono trascorse quasi tre settimane e sto continuando a scrivere il post dal letto, mentre aspetto che Andrea finisca una call per riuscire a concentrarmi nel lavoro: la casa è piccola, le porte non si chiudono e alle chiamate di lavoro partecipiamo, involontariamente, tutti.
Non oso pensare alla seconda seduta via Skype che farò con l'analista tra qualche giorno...
Le disposizioni restrittive di cui parlavo poco più su sono diventate quarantena, le giornate trascorrono quasi uguali l'una all'altra, le prospettive economiche di una coppia che lavora con il pubblico, con le scuole e nel sociale non sono certo le più rosee, ma non molliamo e andiamo avanti, come al solito. Il gruppo meraviglioso con cui lavoro ha girato nelle settimane scorse una serie di video che possano aiutare i bambini ad affrontare i lunghi pomeriggi a casa, con gli amici ci sentiamo via Google meet, con gli zii e i vicini del paesello usiamo Whatsapp, con il papà di Andrea funzionano benissimo le care, vecchie telefonate.

In tutto questo delirio sospeso, tra cinque giorni è un anno che è morta la Maria.
Negli hospice sono vietate le visite e penso costantemente a come avrei fatto, senza poterle stare accanto sempre, fino all'ultimo respiro. Volevo ricordarla con i suoi amici nel prato dove cresce l'ulivo piantato per lei, volevo andare al cimitero a portarle i fiori nuovi, volevo preparare il suo giardino all'arrivo della Primavera, volevo condividere con la comunità la scelta di donare qualcosa in onore della sua bella anima.
Dovrò rimandare, poco male, c'è chi sta peggio e lo so bene. Però mi dispiace e, inevitabilmente, il cervello va lì di continuo, soprattutto la notte. Dormire con me deve essere ormai impossibile, tra urli, calci e pianti diperati: la mia abitudine agli incubi non era un segreto prima, tanto meno adesso.

Ad ogni modo, a scrivere di un paio di libri letti e scelti per accompagnarmi nel lutto sono ancora in tempo. Il primo è La via del bosco di Long Witt Woon, acquistato all'ultimo Book Pride attirata dal sottotitolo (Una storia di lutto, funghi e rinascita) e dalla copertina. Il secondo è Blue Nights di Joan Didion, perchè mi piace vincere facile (o difficile, dipende dai punti di vista).
Entrambi i romanzi parlano di perdita e lo fanno in maniera completamente diversa. Per chi conoscesse già la Didion e avesse letto quella meraviglia di dolore che è L'anno del pensiero magico non avrà difficoltà a immaginare il modo in cui l'autrice scrive della morte della figlia Quintana e di tutti i ricordi di vita che la legano a lei, a partire dall'atmosfera delle sere di quasi estate, quando la luce si fa azzurra sul finire del giorno. Long Witt Woon racconta, invece, il suo percorso attraverso il lutto per la morte del marito, fatto di isolamento, di tempo dilatato, di panico per l'assenza e di timido tentativo di rinascita. Un corso di riconoscimento funghi quanto può aiutare a superare la perdita di una persona cara? Tanto, perché tutto fa.
Un aperitivo con gli amici al quale ci costringiamo ad andare, una serata a piangere sul divano perché uscire era troppo difficile, un pomeriggio di lavoro soddisfacente, una camminata nel bosco, una pizza fatta in casa, un paio di pastiglie giuste, un libro letto tutto d'un fiato, un film al cinema di quelli impossibili da dimenticare, una puntata del Commissario Montalbano, una chiacchierata con i colleghi di prima mattina, una telefonata triste agli zii, una chiamata delle sue amiche, una cena fuori all'improvviso, un laboratorio con i bambini, un post sul blog scritto durante una giornata di quarantena nel bel mezzo di una pandemia. Tutto fa.

Chissà cosa avresti detto tu, cara mamma, di fronte a questo casino.
Cosa avresti fatto? Saresti stata in giardino, avresti fatto la spesa solo alla Pam, perché la Coop è fuori comune e sono abbastanza sicura che ti avrebbero fermata i Carabinieri, avresti fatto due passi fino alla chiesa, saresti salita dai vicini di sopra per un caffè o un Asinello, avresti seguito la messa della tua parrocchia su FaceBook, avresti letto un sacco di libri e ti saresti lamentata per averli finiti tutti ed essere rimasta senza (ieri è uscito l'ultimissimo di Kent Haruf, che rabbia non poterlo commentare con te!), avresti cucinato poco perché intanto, solo per te, non ne valeva la pena, avresti parlato con Agata che - guardala quassù - sembra sempre aspettare che torni.

Io, fuori dal lutto, ancora decisamente non ci sono. Ma ho una casa da finire di sistemare che lei avrebbe adorato, ho la pratica di yoga giornaliera, ho la sua palla di pelo da curare, un lavoro da cercare di alimentare nonostante il Coronavirus, una salute da controllare appena finirà l'emergenza e potrò andare a fare gli esami previsti, un viaggio da immaginare perché con la situazione quarantena e ferie da recuperare è un disastro, una festa da organizzare per ricordarla insieme alla sua grande famiglia.
E non mollo, perché se mi vedesse, si incazzerebbe di brutto!

L'onere della memoria è ricaduto tutto su di me, e mi pesa. Se dimentico, vanno in fumo gli anni passati insieme. Non ci sono più nemmeno i nostri sogni per il futuro; posso solo tenerli in un cassetto. [Long Litt Woon - La via del bosco]

"Hai i tuoi meravigliosi ricordi", diceva, dopo, la gente, come se i ricordi fossero una consolazione. I ricordi non lo sono. I ricordi, per definizione, riguardano tempi andati, cose che non ci sono più (...) I ricordi sono tutto ciò che non vuoi più ricordare. [Joan Didion - Blue Nights]