domenica 13 luglio 2025

Rocket man

Musica.

20 anni.
Tra un paio di giorni, il 15 luglio, saranno 20 anni che è morto mio papà.

Io di anni ne ho 43 e manca poco, ormai, perché sia più il tempo passato qui senza di lui che quello trascorso in sua compagnia.
Di sicuro, nella maggior parte degli anni di cui conservo memoria, lui non c'è.

Misurare la sua assenza non è mai stato facile, probabilmente perchè nemmeno lui lo era.

Purtroppo, quasi tutte le persone che ora fanno parte della mia vita non lo hanno mai conosciuto e io faccio molta fatica a raccontarlo, a spiegare com'era.

Giancarlo non era un buon padre e neppure un buon marito, ma era un uomo buono.
La persona verso cui papà si comportava peggio, però, era se stesso. 

Quante cose si è negato, dalle cene fuori ai momenti di affetto, dalla realizzazione professionale alle vacanze con noi, dalle passeggiate dopo cena alle cure.
Sono proprio queste ultime che, se non gli fossero mancate per suo irremovibile rifiuto, lo avrebbero salvato e gli avrebbero permesso di vedere oltre alle sue paure.

E non intendo che non sarebbe morto, ma solo che sarebbe vissuto.

Quando scrivo la parola cure, tra l’altro, non penso a medicine per il corpo, analisi, accertamenti, prevenzioni, ma terapie per la sua mente, così disturbata, fragile e violenta.

La stessa mente che mi sono ritrovata in sorte e che, subito dopo che mi ammalai io e subito prima che si ammalasse lui, decisi di prendere tra le mani e portare a chi avrebbe saputo insegnarmi a volerle bene.

Papà era un uomo schivo (per usare un eufemismo), dalla manualità mostruosamente sviluppata, con un gran senso del bello, un'attenzione insolita per il verde, una passione sfrenata per la cucina, un rispetto fortissimo per gli animali e una devozione primordiale per il mare.

Il suo vero immenso amore, però, erano le radio.
Meglio se vecchie, rotte e giudicate unanimamente irriparabili.

Lui, ovviamente, non solo era in grado di rimetterle in funzione, ma sapeva come farlo divertendosi, chiuso nella sua cantina fino ai miei dodici anni e nel suo studio non appena ci trasferimmo nella casa nuova.
In entrambi i posti in cui abbiamo vissuto, le poche persone che lo venivano a trovare erano radioamatori come lui, collezionisti, appassionati o semplice curiosi. Li chiamava sempre amici e sono abbastanza sicura che se chiedessi a qualcuno di loro di descrivermi Giancarlo mi risponderebbe che era un genio, burbero e complicato, ma gentile e sempre leale.

Sono nata e cresciuta accompagnata da rumori e odori metallici, con la sicurezza che lo avrei trovato lì, chino sotto la lampada da tavolo a saldare qualcosa, a sistemare un nuovo trasferello su un lavoro concluso, a cercare transistor e resistenze in una delle sue innumerevoli scatoline.
Quando non era lì le possibilità erano due: poteva essere in cucina, intento a preparare uno dei suoi piatti elaboratissimi e dalla bontà inarrivabile, oppure a letto, in pieno giorno.
Tutta la nostra vita è stata scandita da giorni alti, anzi altissimi, alternati a quelli bassi, bassissimi, con dei lunghi periodi di vaga normalità, una sorta rumore di fondo confortante come quello delle sue radio, che nessuno poteva prevedere quanto sarebbe durato.

Soltanto l’anno scorso, durante una seduta di terapia, ho potuto ipotizzare un nome per il suo funzionamento, non che non lo avessi mai pensato, ma sentirlo dire ad alta voce da una professionista mi ha riempito il cuore.
Quanta tenerezza mi ha fatto e quanta consapevolezza adesso (finalmente) ho: non avrei/avremmo mai potuto salvarlo. 
Per lo meno non da sole.

Non so lui come sia vissuto davvero, non ho la presunzione di pensare che un altro modo sarebbe stato meglio, lo suppongo, lo immagino, ma, in fondo, non posso saperlo.
Quello che, invece, sicuramente so, è che aver vissuto con lui e assomigliargli così tanto per me è stato ed è un privilegio, perché se mamma mi ha insegnato la forza d’animo lui mi ha mostrato la bellezza della sensibilità.

Dopo tutto questo tempo posso dirlo, mi manca non potergli raccontare che mi sono sposata, non potergli presentare i miei nuovi amici, non potergli mostrare il lavoro che faccio, per certi versi così simile alle sue passioni. Ma se lo immagino vivo, ad affrontare la terribile malattia di mamma, mi prende un'angoscia incontrollabile e mi ritrovo a pensare che forse è stato meglio così, che al suo cuore delicato siano stati risparmiati una paura tanto grande e un dolore tanto forte.

Quindi, dopo vent'anni, mi ritrovo a ricordarlo cercando in una scatola i disegni che facevo per lui all'asilo, con le descrizioni bizzarre di una bambina che non aveva ben capito che lavoro facesse, dove andasse quando spariva per ore (spoiler: in barca), cosa pensasse con quel cipiglio arricciato rivolto verso il mare. 

E adesso, che di cipiglio arricciato è rimasto solo il mio, lo penso lassù, su un razzo pieno di bottoni e spie luminose, intento ad aggiustare qualcosa per continuare a volare libero, nello spazio infinito.