Qualche anno fa ho scoperto, con non poco stupore, che il
gioco Un, due, tre…stella! si chiama, in realtà, Un due tre…stai là!
Non so se sia vero e, comunque, non è questo il
punto.
Il punto è che quello che mi fa venire in mente il titolo inaspettato
corrisponde, più o meno, a come ho vissuto negli ultimi mesi.
Ieri erano cinque anni che è morta la Maria e, finalmente, mi
sembrano trascorsi 5 anni.
Non è successo tre anni fa, nemmeno l'anno
scorso, neppure ieri.
è successo cinque anni fa.
Dall’ultimo post su questo argomento a oggi sono
cambiate un'infinità di cose nella mia vita, eppure, da fuori, probabilmente
sembra solo che io stia giocando a uno due tre stai là.
Ferma tra un passo e l'altro.
Forse è proprio questo che ho fatto per un anno:
un gioco in cui ho concentrato tantissimo di me in pochi scatti e poi mi sono immobilizzata
a riprendere fiato. Mi sono voltata per sbirciare, solo
ogni tanto, la strada percorsa, non ho guardato quasi mai il muro da raggiungere
davanti a me, ma mi sono impegnata fortissimo ad avanzare.
Come? Ascoltando.
- La paura, lasciandola entrare e invitandola,
dolcemente, a uscire. Come fosse un bambino che deve imparare, pian piano, a
dormire da solo nella sua stanza.
- Il corpo, dandogli lo spazio che nella mia vita
non ha (quasi) mai avuto, regalandogli sonni tanto lunghi quanto inediti su
questi schermi, pur proponendogli sveglie molto più anticipate del consueto,
per dargli l’opportunità di muoversi.
- La tristezza, quella pura, spontanea, di tutti i
giorni, concedendole finalmente di uscire con un mezzo banale, ma chiuso in
garage da secoli: il pianto. A dirotto, nei luoghi più disparati, nei momenti
più inopportuni.
- La speranza, permettendole semplicemente di
esistere, dopo averla dimenticata per scaramanzia in un cassetto, pieno di cose
verdi, di progetti, di idee, ancora lontani nel tempo e nello spazio, ma pur
sempre immaginabili e perché no, magari pure possibili.
Poi ci sono cose che, piuttosto di recente, si sono
timidamente affacciate nella mia vita per diventare, via via, parte integrante delle
giornate e, in alcuni casi, addirittura parte imprescindibile.
Cose che mi
fanno percepire lo stare, come un esserci in maniera autentica.
Mi ritrovo, per
esempio, a compiere movimenti semplici tipo aprire un cassetto e rendermi
perfettamente conto di quello che sto facendo. Come se andasse tutto a
rallentatore, come se i sensi fossero amplificati e non semplicemente iper
vigili (quella è la mia condizione base di allerta, che, per ora, non ha
intenzione di abbandonarmi).
Tutte queste cose nuove hanno, credo, una base comune:
il tempo.
Mi
sono sempre lamentata, negli ultimi anni forse ancora più che in passato, della
mancanza di tempo a disposizione per fare, scoprire, imparare, riposare. Quando
scrivo lamentata intendo, in verità, resa conto, perché, in fondo in fondo, l’ho
sempre saputo che, nella condizione privilegiata in cui vivo, il tempo,
volendo, ci sarebbe.
Ho quindi deciso di andarlo a cercare, questo benedetto tempo, per riempirlo e
svuotarlo ogni giorno.
Per avere tempo occorre togliere tempo, questa è la prima
cosa che ho capito. Sembrerà banale, e forse lo è, ma in una giornata di 24
ore, in cui il lavoro ne occupa 9, a volte anche 10, le restanti 15 devono
essere suddivise, almeno, in tempo per dormire e tempo per mangiare.
Posso
ormai dire di conoscermi e so che per stare bene ho bisogno di 7 ore di sonno,
quindi ecco che le ore disponibili diventano, magicamente, 9.
Da agosto sono seguita da una nutrizionista per una serie di
problemi digestivi e metabolici ormai non più ignorabili e il mio rapporto con
il cibo ha dovuto per forza cambiare. Le quantità sono pressoché rimaste
invariate, la qualità, invece, è stata stravolta.
Per me che non mangio
praticamente più carne, perdere i legumi è stato un trauma.
Il colesterolo ballerino
non mi permette di abbondare con uova e formaggi e, così, mi resta il pesce a
cadenza molto più frequente del passato. Ma come si cuoce il pesce? Come posso
prepare il tofu e il tempeh affinché non mi sembri di mangiare l’imballo dei
pacchi di Amazon? Come si concilia l’amore per la cucina, intesa proprio come
gesto del cucinare, con una variazione così decisa delle mie abitudini? E come
si riesce a preparare per due tenendo conto delle esigenze e dei gusti
dell’altra persona? Rispondere a tutte queste domande ha richiesto impegno, ma
è così che sono nati il menu e la spesa settimanali: per risparmiare tempo e
dedicare alla cucina non più di un’ora al giorno.
Rimangono 8 ore che, per metà dell’anno, diventano 6 perché
gli spostamenti casa-lab sono molto più lunghi, ma non importa: in quel tempo
posso leggere, ascoltare podcast, guardare video (magari, in futuro, potrei
pure dedicare un post anche a queste cose).
Tutto il tempo che rimane lo dedico, a
- lo yoga, possibilmente alle 7 di mattina. A parte il trauma della prima
volta, ormai due volte a settimana mi sveglio alle 6, mangio un paio di
biscotti ed esco. Faccio sempre la stessa strada, di solito con la musica nelle
orecchie, mentre il corpo riparte e la testa si preparano a otto ore di pc. Per iniziare
questa nuova abitudine ho parallelamente cominciato ad andare a letto prima: se
il giorno dopo devo alzarmi alle 6, alle 22.30 sono già sotto le coperte.
- l’EMDR, un’ora a settimana, dove smonto tutto quello che mi è successo negli
ultimi 42 anni e sistemo, pazientemente, i danni.
- la cura della mia persona e della casa, perché tutt* ci laviamo, facciamo il
bucato, cambiamo le lenzuola…
- la famiglia, che essendo composta da due esseri viventi (piante escluse) oltre
a me, è molto facile da gestire: bastano un divano, una coperta, una manciata
di crocchette, una serie TV, un argomento interessante di cui parlare, il
bisogno di sentirsi vicini.
Ma quindi, il titolo del post e la ricorrenza in cui ho
deciso di pubblicarlo, cosa c’èntrano con tutta questa pappardella sul tempo?
La spiegazione sta nella frase che ho scritto poco più su:
Mi sono voltata per sbirciare, solo ogni tanto, la strada percorsa, non ho
guardato quasi mai il muro da raggiungere davanti a me, ma mi sono impegnata
fortissimo ad avanzare.
Nel quinto anno dalla morte di mia madre posso, forse, sussurrare che ho
ricominciato a vivere bene. Per farcela ho dovuto stravolgere tutto, cambiare
modo di stare al mondo, utilizzare il tempo con criterio, come se fossi in una
casa di cura in cui ogni momento è funzionale al recupero.
Ci sono aspetti di cui vado particolamente fiera e altri che
mi appesantiscono ancora, come il senso di colpa quando mi accorgo che la penso
meno (faccio persino fatica a scriverlo senza sentire dolore).
Ma, dopotutto, è così, la penso meno e la penso meglio.
La ricordo viva e mi manca più di prima, più di quando rimpiangevo uno
scheletro calvo e terrorizzato, perché era l’unica immagine che ricordavo di
lei, l’unica che tornava a tormentarmi giorno e notte, qualsiasi cosa facessi
per non pensarci.
Ora non è più così, ora è i fiori di Vesima che aspettano l’estate, è la pelle
delle sue guance sempre fresche, è la sagoma storta che mi cammina davanti
spedita, è la bottiglia di vino lasciata sul tavolo in cucina, è la battuta
giusta al momento giusto, è il sorriso enorme e contagioso, è l’ascolto
silenzioso, sempre e comunque.
Ora è finalmente, di nuovo, la Maria.
Quindi eccoci qui, il post è finito e ora schiaccio il tasto pubblica, direttamente dal suo giardino, in una bellissima giornata di primavera, come quella di cinque anni fa.
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