lunedì 22 marzo 2021

Ciao Maria, io esco



Mio padre assomigliava a Gino Strada. Lo diciamo sempre, io e la zia, che quando ci capita di vederlo in tv pensiamo a papà. È principalmente una questione di sguardo: grandi occhi circondati da pesanti borse e cipiglio sempre un po' arrabbiato. Ma anche sorriso raro, un po' sornione, spesso nascosto da baffi e barba incolta.

Mia madre, invece, assomigliava a tutte. Ogni donna intorno alla settantina, piccola di statura, magra, con i capelli brizzolati e l'andatura a metà tra il fiero e l'incerto è mia madre, nonostante la sua personalità fosse particolare e inconfondibile. Genova, si sa, è una città vecchia e, almeno nel centro storico dove vivo, lavoro e mi sposto quotidianamente, la maggior parte delle "signore anziane" che incontro non porta i tacchi alti, nè la pelliccia, nè i capelli lunghi e tinti. Tra le persone in cui mi imbatto spesso, di media tre o quattro volte al giorno, ci sono donnine basse, con i capelli corti e bianchi, il piumino, la borsa a tracolla e le scarpe da trekking.
In pratica, c'è mia madre.

All'inizio mi andava il cuore in gola, adesso ci ho fatto l'abitudine e, anzi, se sono particolarmente malinconica, quando ne vedo una all'orizzonte, socchiudo gli occhi per scorgerne solo i tratti sommari e fingere che sia lei. A volte devo trattenermi dall'avvicinarmi, dal chiedere di scambiare due parole, dall'abbracciare. Proprio io, che gli abbracci li odio (e se c'era una persona che li odiava più di me, forse, era mia madre).

Domani sono due anni che è morta la Maria. Come ho già scritto in passato, pochi giorni prima di ricevere la diagnosi ascoltava spesso e condivise addirittura sul suo profilo facebook questa canzone, in particolare queste parole: 

Al tramonto, di tutto, potremo capire
Sopravvivere dentro ad un tratto di colore
Nei suoni più caldi scomparirà il dolore
Poi forse un giorno ci rincontreremo

Inutile che scriva quanto per me sia ancora difficile sentire il pezzo di Cosmo, nonostante, in qualche modo, mettermi le cuffie e farlo partire significhi anche riavvicinarmi a lei e accorgermi che, per un momento, "nei suoni più caldi scomparirà il dolore".

Il mio passaggio preferito, però, è quello che arriva un attimo prima:
Saremo orizzonti e ci potremo ammirare
Ci nasconderemo nel profumo del mare
Ci ritroveremo nei dettagli più belli
Ci riscopriremo nelle cose più rare
E sarà superfluo non saperlo spiegare

perché è esattamente così che succede, da ventiquattro mesi esatti.
Un anno trascorso dall'ultimo post di anniversario, un anno in cui non è cambiato nulla. Per tutti, mica solo per me. La pandemia ci costringe tra casa e lavoro, limita gli spostamenti fisici ma, al contrario, alimenta quelli mentali. Quanti film mi sono fatta in questi mesi! Quante volte ho incontrato il passato nella quotidianità, senza riuscire non dico a scalzarlo, ma almeno a contenerlo con immagini del futuro.

E dire che di progetti in cantiere, anche piuttosto grandini, ne ho eccome. Ma a costo di sembrare retorica, pesante e scontata, senza poterli raccontare a lei, a loro, diventano automaticamente più piccoli. 
E quindi, in questi giorni tutti uguali, alcuni più uguali degli altri, cerco di riprendere il controllo che ho perso due anni fa e che, volutamente, ho fuggito per tutto questo tempo. In un periodo in cui possiamo controllare poco mi sono data il permesso di non controllare niente. Però mi sono persa, e tanto. Non ho ricominciato, non ho proiettato, sono stata nel passato e, quando è andata bene, sono sopravvissuta nel presente. Che lo so, l'importante è il qui e ora, ma a volte mi piacerebbe sentire i quasi quarant'anni che ho e cominciare a riflettere su quello che vorrei e che, vita di mxxxa permettendo, potrei provare ad avere. Magari ce l'ho già e non lo so, magari invece no.

Detto questo, la Maria, la cerco (e la trovo) ovunque.
Nei garofani lilla che mi ha regalato qualche giorno fa una sua amica, nei fiori raccolti a Vesima appena la Primavera ha iniziato a farsi spazio, nelle riunioni di condominio e di comitato in cui faccio malamente le sue veci, nella mia voce, nella stoffa rosa cipria, nella creta a cui do forma, nella strada che percorro al mattino, nello yoga che pratico la sera, nelle verdure di Maurone, nei dopo cena al telefono con gli zii, nei caffé con i vicini di sopra, nei vecchi scatti che conservo nel telefono, nella pervinca infilata nel vasetto al cimitero che chissà chi le ha portato, nei tramonti visti per sbaglio, nei libri che leggo, nei ricordi puntuali del mio ex professore di filosofia, nei vestiti che indosso, nei miei capelli bianchi, nell'albero fiorito della foto quassù, nelle quotidiane discussioni del forum, in questo post scritto nei giorni sospesi della diagnosi (e io, che non credo a nulla, non sono riuscita a non notare, in una notte insonne, il numero 23 degli euro spesi per comprare gli animali: lo stesso numero del giorno in cui è andata via, sei mesi dopo).

E niente, ho finito, con un dito mignolo bruciato dal forno, pubblico a distanza di tre mesi dall'ultima volta, con tanta e contemporaneamente poca voglia di dire, di scrivere, di aprirmi. Ma come mi ha consigliato oggi quel sant'uomo che vive con me, il titolo giusto è "Ciao Maria, io esco", per ritrovarti e, soprattutto, ritrovarmi.