mercoledì 29 maggio 2013

Cloruro di Vinile

Ieri ho dato l'ultimo esame di dottorato, che, se non contiamo il momento della discussione di tesi, oltre ad essere l'ultimo esame di dottorato era anche l'ultimo esame della mia vita. Universitaria per lo meno.
In queste settimane di studio, formule, scoramenti vari ed eventuali, appunti, presentazioni power point e disperate navigazioni in rete, ho più volte sfogliato le dipense del corso, trovando, con mia grande sorpresa, mille cose scritte nei pochi spazi liberi dal testo e nei retri bianchi dei fogli. La classica casetta con il fumo che esce dal comignolo, le mie consuete galline in fila, cuoricini di dimensioni diverse, decine di alberi di tutte le forme, fiori, frasi di canzoni, soli con i raggi lunghissimi, mezze lune, lune piene, nuvole e ombrelli.
Tra le pagine di chimica macromolecolare ho trovato il testo per l'invito alla mia festa dei 30 anni e il progetto presentato al Festival della Scienza 2012.
Dietro al foglio dedicato al Cloruro di Vinile, però, ho scovato un elenco: una lista non troppo lunga di cose che odio.
Mi è subito venuto in mente di avere già scritto qui un post su tutto quello che non sopporto, immagino che l'idea mi fosse venuta proprio quel giorno a lezione, mentre tentavo di far trascorre il tempo pensando ai capelli nello scarico della doccia, all'odore di unto appiccicato ai vestiti, alle persone che parlano urlando.
Ho controllato e molte delle cose che ho scritto su quella pagina non sono citate nel vecchio post, così ho deciso di dare dignità anche all'elenco rimasto nascosto dietro al Cloruro di Vinile:
Parlare in pubblico
Stare nei luoghi chiusi o affollati
Le lenzuola puzzolenti
La birra sgasata o calda
L'acqua effervescente
Il caffè troppo corto o troppo freddo
Le persone alte al cinema davanti a me
Le persone che hanno sempre una facile soluzione per tutto
I maglioni che pungono la pelle
Le etichette sul collo
Le borse sportive su un vestito elegante
I cellulari con la suoneria molesta
Le persone che occupano quattro posti sul treno con i loro pacchi
I commessi che non salutano nei negozi
L'aria nella pancia
I piccioni schiacciati dalle auto
I capelli sporchi
L'acqua che entra nei guanti di gomma lavando i piatti
L'alito pesante delle persone vicino a me sui mezzi pubblici
L'odore di cane bagnato dei panni umidi
Gli sputi

L'esame, nonostante tutto, è andato benissimo.

sabato 25 maggio 2013

Senza titolo

Una settimana abbondante dall'ultimo post. Sono successe tante piccole/grandi cose che hanno reso unici questi dieci giorni: i miei 5 sensi sono stati messi alla prova e le mie emozioni profonde hanno subito più di uno scossone.
Dal giorno del funerale dei portuali un'altra "morte grande" ha attraversato questa città. Don Andrea Gallo non c'è più.
Pure questa volta ondate di retorica hanno intriso social network, radio, giornali e, immagino, anche televisioni. Gente che non lo conosceva, persone anni luce distanti da lui e dai suoi principi, hanno scritto fiumi di inutili parole per ricordare i suoi insegnamenti, il suo viaggio accanto ai più deboli, la sua vena politica e polemica, il suo sigaro, la sciarpa rossa e tutto il resto. Io non lo farò, ho già scritto abbastanza. Lascerò il compito a Don Farinella (degno erede del passaggio di Don Gallo tra noi?) che, mercoledì sera, mentre mia mamma ascoltava un seminario nella sua parrocchia, ha brevemente interrotto l'incontro e ha detto al microfono "cinque minuti fa Don Gallo è morto". Basta. Nient'altro da dire, solo sperare di aver imparato anche solo un poco del punto di vista così prezioso di questo sacerdote.
In questi dieci giorni ci sono stati due viaggi, uno a Torino e uno a Milano. Il primo, domenica, al salone del libro. Mi sono annoiata, persa tra la gente, innervosita, consolata da Eataly e fuggita...senza comprare nulla! Per fortuna in Piazza Castello c'era una cosa che sembrava proprio fatta apposta per me: una specie di vascello d'altri tempi, sormontato da bianchi palloni aerostatici, ricoperto di piante di ogni genere, atterrato a Torino dopo essere partito da Bruxelles e pronto a volare verso Amburgo. Questa zattera, una via di mezzo tra un'idea di Tim Burton e un cartone di Miyazaki, ha lo scopo di portare con sé un grande messaggio, l'importanza della biodiversità, delle energie alternative, del valore del verde. Quindi, tra nasi all'insù, bambini stupiti, adulti curiosi, musiche suonate direttamente sulla strana astronave, fiori, macchine inutili e sole caldo, mi sono riappacificata con una giornata partita male e sono rientrata tranquilla e piena di fotografie.
Il lunedì, invece, è iniziato malissimo: strumenti che non funzionavano, lavori interrotti a metà, brutte notizie da parte di mamma...fino alla sera, quando ho deciso, in preda alla disperazione, di andare a sfogarmi in palestra. Nel brevissimo tragitto tra casa e tappetino una scena allucinante ha aggiunto la ciliegina mancante a quella giornata così negativa: la morte in diretta di un cane bellissimo, tragica quanto assurda, mi ha lasciato una diffusa e amara sensazione di vuoto, intensa quando la bella emozione regalata dalla nave verde il giorno prima.
I sensi del gusto e dell'olfatto stimolati tra i formaggi del Lingotto la domenica, quello della vista protagonista nel pomeriggio sotto il sole di Torino e in quella brutta sera nella piazza vicino a casa. Ancora gli occhi in primo piano al martedì, lezione di fotografia tra vecchi e famosi scatti e primi rudimenti di luce e colore. L'udito è stato con me più che mai mercoledì sera, a Milano, concerto dei Dark Dark Dark...bello, intenso, pieno di suoni diversi, dalla tromba alla fisarmonica, dal basso alla batteria, dal banjo alla tastiera. E mentre il sushi dell'Idroscalo ha terrorizzato il mio senso del gusto, quello di ieri condiviso con una dozzina di amici nel nuovo ristorante vicino a casa, ha risvegliato ogni papilla e ha aggiunto positività ad un venerdì sera già molto divertente. L'olfatto, stimolato dai mille fiori del giardino di mamma, davanti al bucato dei vicini non ha mai tregua e inevitabilmente le sensazioni che scatena corrono a bussare ai ricordi. Anche l'ultimo senso, il tatto, questa settimana è stato dolorosamente associato a pensieri lontani e semi sepolti: dopo la prima seduta dall'osteopata sensazioni fisiche e mentali fastidiose al limite del pianto e della nausea si sono intrecciate e chissà la prossima volta cosa verrà fuori.
Quindi, in questi dieci giorni che credevo sarebbero stati quasi esclusivamente dedicati alla preparazione del mio ultimo esame di dottorato, è successo di tutto, scene da film come un cane che vola, un brucomela che corre nella notte e un bambino vestito di azzurro che parla di scienza.
E poi, Baldo si è svegliato.

giovedì 16 maggio 2013

Pelle d'oca

Ho già usato un'immagine simile qualche anno fa, in un post intitolato "Un giorno Perfetto". E' una foto scattata dal terrazzo di Campopisano, quando abitavo lì, una sera di fuoco meraviglioso, di quelle che ti tolgono il fiato appena socchiudi la portoncina di metallo, di quelle che ogni secondo che passa la luce cambia, che ogni foto che scatti è più bella della precedente, che chiameresti tutti a vedere ma sei sola in casa e non ti resta che godere dello spettacolo raro, prezioso e potente che la natura ti ha offerto.
Oggi questo scatto ha un significato in più, anzi, in meno. Pressappoco al centro dell'immagine c'è una torre, un tubo lungo con un cappello rovesciato sulla cima, quella era la torre dei piloti. Tempo presente, tempo passato. La torre è crollata pochi giorni fa, un incidente nautico ancora non spiegato che ha causato morti, feriti e per ora il mare non ha ancora restituito l'ultimo corpo.
Non scrivo per entrare nel merito della tragedia, né per cercare colpe, attenuanti e fare ipotesi. Scrivo perché la mia città in questi giorni ha reagito in mille modi diversi e io, che ormai vivo nel suo cuore, che abito nei vicoli, che faccio la spesa grossa in Piccapietra e quella piccola tra le bancarelle del Ducale e quelle del Porto, ho osservato i movimenti di Genova davanti a tutto questo dolore.
Le sirene la notte dell'incidente, le ricostruzioni minuziose degli ex portuali in sala d'attesa dal medico la mattina dopo, i mugugni degli anziani in Piazza, le locandine spesso agghiaccianti e per me incomprensibili dei quotidiani, le bandiere a mezz'asta, le parole del Sindaco, la folla davanti a Palazzo S. Giorgio la mattina del disastro. Tante cose mi hanno fatto riflettere, una di queste è la nuova definizione coniata per l'occasione: "Gli Angeli del Porto". Dopo "Gli Angeli del Fango", nati l'anno scorso all'epoca dell'alluvione, si sentiva forse la necessità di stuzzicare la gente con un nuovo nome evocativo dal profumo un poco biblico? Era davvero necessario? Perché, non basta sapere che ci troviamo davanti a delle persone, a dei padri, a dei fratelli, a dei fidanzati, a dei mariti, a dei figli, a degli amici, che sono morti lavorando? Non sono angeli, sono lavoratori. Erano lavoratori. Come lo era Albert Kolgjeja, l'operaio morto l'8 novembre 2003 durante la costruzione del Galata Museo del Mare: per lui nessun funerale di stato, nessun "angelo" al posto del suo nome, solo una sentenza cinque anni dopo la sua morte. Beninteso, non intendo dire che i ragazzi di Molo Giano non meritassero le transenne in tutta la città, la visita del Presidente della Repubblica, le centinaia di Forze dell'Ordine, i maxischermi, le sale stampa...tutt'altro, penso invece che meritassero più rispetto. Il silenzio per esempio, lo stesso silenzio con cui i sommozzatori continuano a cercare l'ultima vittima ancora dispersa, lo stesso silenzio con cui la famiglia ha ringraziato per queste immersioni che non si arrendono, lo stesso silenzio degli striscioni comparsi qua e là per ricordare questi lavoratori morti mentre svolgevano la loro attività in una notte di maggio. Vivendo in una città in cui si è giocato a calcio il giorno dopo l'incidente e in cui al Porto i turisti con la macchina fotografica al collo non chiedevano dove fosse l'Acquario, ma domandavano la strada per Molo Giano, l'unico suono che sono riuscita a tollerare sono state le navi. Il lungo saluto di balena che oggi alle 18 mi ha tolto il respiro e fatto salire le lacrime agli occhi, un addio gridato da quei bestioni che ogni giorno passavano davanti alla torre e che, ironia della sorte, del suo crollo sono anche i responsabili. Quando le navi suonano a Capodanno mi viene sempre la pelle d'oca, ma di solito le urla, i brindisi, la festa si uniscono alla sirena...questa sera, al boato, si è unito solo un rispettoso silenzio.

lunedì 13 maggio 2013

Mandaci una cartolina

Scrivo ascoltando la canzone del titolo, una di quelle che preferisco di Carmen Consoli.
Non so perché la stia sentendo, per una volta, la profonda e diffusa tristezza di oggi, non è legata a pensieri su mio padre, o così pensavo fino a che non mi sono sorpresa a canticchiare questo pezzo.
E' lunedì, ufficio-palestra-casa. Immagino che il week end abbia influito sui miei sentimenti, ma non riesco a individuare il preciso momento del click. Certo, la stanchezza, una domenica iniziata presto dopo una notte cominciata tardi, una mega colazione per undici, due torte, due frittate, lo zabaione, la macedonia, i toast, i piatti da lavare, i seimila gradini per far visita alla futura mamma, il fritto misto di slow fish. Quest'elenco, però, è una lista bella, non sono cose tristi, sono panni stesi al sole in Via Ravecca, profumo di dolci, tostapane a forma di maialetto, il vicino-vicino che prepara i pan cake, le gerbere colorate, le nespole della Elli e i pescioni in affido della Nessie. Ma allora perché?
Forse per il sabato pomeriggio al pronto soccorso con la mamma, che non si lamenta mai, che si china e sente male alla schiena, che se era a casa sua come minimo andava a riposarsi con la gatta e che invece se ne stava lì, nella mia cucina, con la ferita aperta, nonostante i punti li avessero già tolti da un po'.
E quindi tre ore di sala d'attesa, tre punti ridati senza anestesia, due pizze mangiate tardi e al volo, una birra per tirarci un po' su e poi ognuna a casa sua. Io però non sono riuscita a togliere il pensiero, né a impormi e andare con lei, né a cacciare i sensi di colpa. Così oggi che la mia nuova collega mi ha chiesto di cosa è morto mio padre, oggi che ho passato la pausa pranzo al sole, oggi che ho cenato da sola con gli avanzi, mi è salita la tristezza.
E' strisciata piano piano, arrivata nel primo pomeriggio, si è presa tutti i miei pensieri. Sembrava il ghiaccio di questo video assurdo che ho visto stamattina: http://www.ilpost.it/2013/05/13/ghiaccio-minnesota/, lenta e inesorabile come i cattivi dei film che ti raggiungono sempre, anche quando corri velocissima, invece loro camminano appena.
Mentre preparavo l'ultimo esame di dottorato la tristezza si è presa il power point e non sono riuscita ad andare avanti, poi si è presa il prossimo week end nonostante il programma sia lavorare con i bimbi che è una cosa che mi piace, si é presa venerdì e la presentazione del corso di fotografia che temo dovrò abbandonare per investire i soldi in urgenze mediche un po' costose, si é presa i viaggi di giugno (di lavoro, ma pur sempre viaggi) e alla fine si é presa la mia pancia e mi é venuto da piangere in ufficio, davanti a tutti.
Chiuso il pc, preso lo zaino, saltata sul 17 al volo, ho cercato rifugio in palestra dove sono riuscita a lasciare un po' di tristezza sul tappetino. Un altro po' l'ho messa in lavatrice e una bella fetta la sto incastrando qui, tra le parole che scrivo.
Non mi resta che provare ad abbandonare il resto nel sonno.
Buonanotte

lunedì 6 maggio 2013

"Rispondimi di sera, dopo un bicchiere giusto."

Il titolo di questo post arriva diretto dall'ultimo libro che ho letto, in tre giorni, nelle mini pause dal lavoro e dallo studio, per prepararmi all'incontro di mercoledì sera.
Il libro è Ti sembra il caso? Schermaglia fra un narratore e un biologo, dove il narratore è Erri De Luca e il biologo è Paolo Sassone-Corsi, l'incontro è con gli autori, alla Feltrinelli, dopodomani alle 18.
Mi capita qualche volta di leggere libri un poco più "scientifici", dove non ci sono solo storie, personaggi, trame e paesaggi. Ricordo l'anno scorso (o forse due?) il saggio di Oliver Sacks che mi aprì al concetto di per(proprio)cezione corporea, un mese fa a quest'ora ero immersa (assai dolorosamente) in Donne che amano troppo e oggi, per pranzo, ho mantenuto la promessa: sono uscita dall'Università, ho cercato e trovato una scaletta isolata e ho finito di leggere questo mini volume bianco abbracciata da un sole incerto.
Io, "scienziata" per errore, ancora molto (forse troppo) legata alle parole, alla storia dei posti, al mistero dell'arte, mi sono un po' riappacificata con il senso di inadeguatezza che per anni ho sentito rendendomi conto di stare eccessivamente lontana dalla vita di laboratorio, fatta di calcoli, previsioni, tentativi. Tutte cose che, in verità, in passato ho messo assai in pratica nel quotidiano, ottenendo la fama di quella che programma sempre tutto, non lascia nulla al caso (anzi Caso), non si gode la vita alla giornata.
Ora che forse questa Elena super organizzata e previdente è rimasta indietro, mi sono automaticamente avvicinata di più alla scienza per lavoro e, come nel caso della lettura di questo libro, per puro interesse. Lo stesso che mi spinge a seguire i laboratori di Robotica Educativa, attraverso i quali la matematica, la meccanica, i numeri insomma, possono aiutare addirittura a scrivere e diffondere una storia.
Nel libro di Erri e Paolo (e un poco anche di Emiliana, moglie di Paolo e scienziata come lui) ci sono Napoli, i batteri, la montagna, le stelle, la notte, il giorno, il vino (v. titolo del post), la chimica, Dio, il sole, la lontananza, i perché, le risposte a questi perché, l'amicizia, l'uomo, mille altri argomenti che hanno segnato il mio andare e spunti che da anni porto con me quando cerco di far fronte alle difficoltà, agli imprevisti, ma anche quando tento di godermi la vita per come arriva.
Una sera di qualche tempo fa un discorso simile a quelli affrontati dagli autori di Ti sembra il caso? rovinò una serata, mi ferì profondamente e mi fece riflettere per mesi. Tuttora ne porto il segno, un taglio nell'anima che mi costringe a relativizzare e a scervellarmi sul piccolo e sul grande, come Erri scrive all'inizio.
Quel discorso mi unisce alla persona con cui lo feci, con cui, ancora oggi, spesso capita di ricordarlo e con cui, mercoledì, sarò a sentire Erri e il suo amico Paolo parlare di amore per la scienza e amore per la vita.

venerdì 3 maggio 2013

Sul ponte sventola bandiera bianca

Sul ponte sventola bandiera bianca, la mia.
Una giornata iniziata alle 5.30, doccia, moduli, attesa, tubo. Ennesima risonanza magnetica dell'ultimo anno.
Per fortuna, in questo caso, qualunque cosa sia, la preoccupazione è minore dell'ultima volta che mi hanno infilata nel tunnel e bombardata di rumori per un po'.
Per capire cosa è successo occorre fare un passo indietro e tornare a qualche giorno fa, mentre un passo lo facevo in avanti...e crack.
Parrebbe menisco rotto. Il sinistro ovviamente.
Come sia capitato non lo so, nessuna torsione, nessun trauma, nessun salto o brusco movimento...solo un passo avanti. E qui le metafore si sprecano.
Non ci sono certezze, il medico che mi ha vista propende per una rottura, magari piccola (o così spero io), soprattutto dal momento che continuo a sostenere di non aver dolore né eccessivo gonfiore. Il problema è che il ginocchio non mi regge, scricchiola, si blocca, e dentro nasconde improvvisamente un bilia pronta a rotolare contro le pareti a ogni falcata. Quindi si aspetta come al solito l'esito di un esame e poi si vedrà...io punto, nel caso, a operarmi dopo l'estate; per ora nella mia testa resta salda la speranza che sia solo un acciacco passeggero.
Dopo il tubo colazione, bus, ufficio e telefonata a mamma, che sta bene, l'operazione sembra riuscita e pian piano migliorerà. Messa giù la cornetta, ritirati i campioni, aperto il report del giorno da correggere e modificare, altra telefonata: sempre mamma. Questa volta non sono buone notizie, una persona a cui tengo tanto, che poco meno di tre anni fa ha celebrato l'importanza della mia indipendenza con dei doni meravigliosi, sta male, ma male male, quel male che a volte non si può tornare indietro. Io, a questo punto, mi sono lasciata piangere e lo so che non si dice così ma è quello che ho fatto: mi sono data il permesso di sentire tutto il dolore del mondo per quel seme trasportato dal vento che ora sta lottando per rimanere qui, nel punto preciso della Terra dove è caduto. Così mi scrisse lui.
E allora io che non credo prego, prego che ce la faccia, prego che la sua genialità abbia ancora tanto spazio per esprimersi, che la lettera così bella appesa in salotto resti di qualcuno a cui posso ancora fare un cenno col capo mentre passo accanto alla cattedrale o invitare a casa per un saluto come pochi mesi fa.
Spero che possa leggere un giorno queste mie parole di ringraziamento e di incoraggiamento, forti come quelle che mi dedicò quando avevo più bisogno di credere nelle mie possibilità.
Lascio la palla ad uno degli autori che qui cito più spesso, non perché sia il mio preferito, ma per il profondo significato che le sue scritture hanno avuto per me negli ultimi anni, perché la prossima settimana lo vedrò qui nella mia città e perché cielo e radici sono i soggetti che mi fanno pensare di più a questo amico in difficoltà:
"...Amo gli alberi. Sono come noi. Radici per terra e testa verso il cielo..." (Erri De Luca), una frase che sembra mia più di molte altre, nella speranza di rivederti presto e di fare due chiacchiere.
Ti saluto come fai tu:
empaticamente
Elena