giovedì 26 ottobre 2017

Ho toccato il cielo con un dito


Laggiù, guardando attraverso l'occhio di Yubi, si intravvede il mio primo laboratorio da proponente free lance al Festival della Scienza di Genova.


In verità la primissima volta in cui partecipai come animatrice ero anche tra gli organizzatori, ma è passato tanto tempo e non correvo (ancora) da sola. L'argomento era anni luce, giusto per restare in tema con l'attività di questi giorni, lontano da quello di Il cielo con le dita, cellula più o meno impazzita della mostra Il cielo con un dito organizzata da Konica Minolta Laboratory Europe.

L'anno scorso mi ero ripromessa che avrei smesso con l'asterisco rosso e devo dire che ne avevo tutte le ragioni: la stanchezza, la voglia di cambiare, la nostalgia che questo periodo porta sempre con sé e che durante il Festival, per mille motivi, si fa troppo pesante, il senso di inadeguatezza, il carpiato di mamma sulle scale della metro a due giorni dalla fine.
Poi, però, in Primavera è suonato il telefono e quello che è successo ve l'ho già raccontato.
Il risultato è che mi sono fatta nuovamente risucchiare da questo vortice di turni, classi, conferenze, corse, risate, sorprese, una spirale caotica che trova da anni posto qui sul blog, in davvero tantissimi articoli, più di quanti pensassi.

Quindi, ricapitolando, sono animatrice e ideatrice di un laboratorio, che si intitola Il cielo con le dita, che fa parte della mostra Il cielo con un dito, che è sponsorizzato da Fila (gentilissimo fornitore di mezza tonnellata di Didò) e da Remida Genova (altrettanto gentile dispensatore perpetuo di materiali di recupero, preziosi quanto l'oro).

Se mi aveste chiesto fino a ieri, ma anche fino a stamattina alle nove, quale fosse il target del lab vi avrei risposto 6-12 anni, meglio se 8-10.
Beh, mi sbagliavo di grosso e sono stati i bambini (anche se dovrei scrivere ragazzi) stessi a sbattermi in faccia, senza farsi troppi problemi, la realtà.

La mostra è facilmente modulabile, sicuramente più indirizzata a un pubblico semi adulto (dalla scuola media inferiore in su), ma fruibile anche dai bimbi più piccoli, grazie alla bravura di tutti: di chi l'ha pensata, di chi l'ha disegnata e allestita, di chi la sta animando.
Il laboratorio, invece, prevede l'uso del Didò come elemento conduttivo al fine di costruire un circuito elettrico e parlare di materiali isolanti e conduttori. In realtà è tutto un pretesto per fare tinkering e agganciarmi alla meravigliosa storia della sonda Cassini (chi mi conosce sa che ho sviluppato una sorta di ossessione piuttosto ingiustificata verso questa missione spaziale) e raccontare quanto sia stato lungo e ricco di scoperte questo nostro viaggio nell'Universo.
Io ero fermamente convinta che i destinatari del laboratorio fossero i bambini della scuola primaria e quelli della secondaria inferiore, diciamo fino ai dodici/tredici anni, ma quando stamani la prima (e poi la seconda, la terza...) classe di liceali è corsa a sedersi sul tappeto arancione, dopo aver seguito quasi un'ora di spiegazione in mostra, mi è salito il panico.

Vuoi dire che sta roba che ho pensato va bene per tutti?
La risposta, semplicemente, è sì.


Non avrebbe senso tenere dei quindicenni mezz'ora attorno a un tavolo in compagnia di Didò, pile e cavi coccodrillo, ma accoglierli per un quarto d'ora, farli ragionare sui componenti di un circuito, ascoltare le loro domande sulla sonda Cassini e vedere nei loro occhi la stessa meraviglia che c'è in quelli dei piccoli al momento dell'accensione del led, non solo mi sembra bello, mi pare pure buono e giusto.
Perché? Per tante ragioni. Ne citerò però soltanto una, che racchiude tutto il senso del mio vagare: chi sono io per decidere che un gruppo di ragazzi non debba sedersi a giocare con un panetto di plastilina? Chi ha detto che alle superiori tutti sappiano come funziona un circuito elettrico? Dove sta scritto che le cose semplici, colorate e un po' caotiche siano solo per bambini?

Alla fine uno dei motivi per cui faccio questo lavoro è che mi diverte, soprattutto nelle sue parti di progettazione e di esecuzione (c'è forse qualcuno che lo fa per amore dei preventivi e dell'archiviazione ordinata delle fatture?): perché, dunque, non dovrebbero divertirsi anche gli altri?
Io vi aspetto, voi venite. Anche solo per accendere un led, farvi un selfie con Yubi, appuntarvi una spilla da astronauta, firmare il razzo della missione, costruire una sonda e dirmi ciao.


giovedì 12 ottobre 2017

Nulla che io ami di più


Con tutto questo lavorare, con tutto questo affanno fatto di incastri, partenze, scadenze, appunti, agende, materiali, consegne, riunioni, risposte, preoccupazioni e speranze ho perso di vista alcune cose.

Una fra tutte: quello che amo di più.


Non riesco a spiegare in poche righe cosa sia, è una sensazione più che altro, di cui ho già scritto spessissimo qui e di cui è già da qualche tempo che non faccio più menzione.
Esiste un periodo, ciclico e inarrestabile, che inizia verso la fine di Settembre e si conclude all'inizio di Dicembre, dove passo, in una manciata di secondi, dall'essere emotivamente distrutta al sentirmi felice come non mai. Non so se capiti a tutti, non so se sia normale, so solo che questa sorta di saudade perpetua mi accompagna senza sosta per un paio di mesi, da sempre.

Ricordo perfettamente il giorno in cui sull'autobus, tornando da una delle escursioni della gita scolastica ad Atene, il mio prof di greco del liceo cominciò a chiamarmi Saudade: ci aveva visto lungo, lunghissimo. Mi aveva parlato di una luce negli occhi, di un mood, di un sorriso abbozzato e di un ombra improvvisa...e aveva così ragione!

Proprio ora, mente scrivo, sono nella "fase buona", nell'attitudine costruttiva: penso ai prossimi mille week end di lavoro in funzione del primo che, invece, sarà di festa. Voglio andare via un paio di giorni e ricaricare gli occhi e il cuore, voglio riempire le pagine di un libro con un sacco di foglie secche, voglio scattare foto agli alberi, ai funghi, all'acqua di un fiume.

Nulla che io ami di più.
Nulla che si avvicini tanto alla mia saudade. Gioia e disperazione, tappeti di muschio soffice e rami spogli.

Una volta, quando ancora avevo del tempo da spendere per alimentare questa fetta importante di anima, trovavo il modo di infilarmi in un bosco a camminare appena potevo. Quest'anno l'autunno l'ho visto, per ora, solo su Instagram. Sono riuscita a fare due passi sulle colline sopra a casa domenica scorsa, dopo un sabato di laboratori. Forte Begato era aperto e scoprirlo è stata una meraviglia inaspettata. Un posto potenzialmente magnifico, abbandonato a se stesso, curato nei dintorni da splendidi volontari, visitabile dal pubblico solo nel fine settimana e lasciato chiuso per tutto il resto del tempo.
Bellezza e desolazione. Saudade.
Rampicanti che si intrufolano negli spiragli delle porte lasciate aperte dai vandali, mantidi religiose che corrono sull'asfalto per cercare riparo dai nostri movimenti maldestri, fiori azzurri che dondolano al vento, una volpe che si nasconde tra le stanze vuote, un prato enorme, un ponte, un anfiteatro, una vista che mozza il fiato.
E poi la luce, quella magnifica delle 16.30 in autunno, quella che comincia a salutare il giorno e ti riempie il cuore di gioia e di tristezza. Saudade.

Oggi sarebbe stato il compleanno di mio padre, stasera io e mamma andremo a goderci una conferenza sulle bellezze delle piante al Museo di Storia Naturale e poi ci prenderemo un aperitivo per brindare a quell'uomo schivo, ironico, difficile, stanco, misterioso e pieno di idee che era papà. Quell'uomo che sapeva ridere e incazzarsi nella stessa frase, che sapeva chiudersi per giorni e farti volare dalla felicità nel giro di una settimana.
Come la luce delle 16.30 in autunno, come il tappeto di muschio sotto i rami secchi. Come il mio cuore oggi, come il mio cuore sempre.
Saudade.

lunedì 2 ottobre 2017

Sto volando!


In diretta dal volo AZ1391 Roma - Genova

Sto volando.
Ho una paura boia, le orecchie tappate, il polpaccio che pulsa. Anche se questa ultima cosa secondo me è suggestione.

Ho appena bevuto un bicchiere di succo di arancia rossa e la signorina all'altoparlante dice che tra venti minuti arriviamo.
Un bimbo due sedili più a sinistra guarda i cartoni, una signora mangia il secchio di insalata più grosso che abbia mai visto. Alle sei del pomeriggio.

In diretta dal mio letto
Le poche righe quassù sono l'unica cosa che ho potuto scrivere sabato scorso, mentre sorvolavo il nostro bel mare quasi certa che:
a) saremmo caduti
b) saremmo esplosi
c) mi sarebbe venuto un ictus
d) avrei vomitato
e) sarei rimasta sorda
Le opzioni, come vedete, erano molteplici. Secondo i miei calcoli avrebbero potuto palesarsi contemporaneamente, in ordine sparso, con un più o meno alto grado di certezza (soprattutto per ciò che riguarda i punti c e d).

Quel sant'uomo del mio collega che volava con me si è sorbito la mia faccia pallida e i miei occhi sgranati, ma, a quanto pare, non sono stata poi così molesta.

Avrei voluto godermela di più, scrivere un intero post tra le nuvole, fare pipì ad alta quota, scattare mille foto dal finestrino, farmi una maschera al viso come le beauty guru, segnarmi gli appuntamenti della prossima settimana in agenda, bere qualcosa di forte, disegnare...
E invece mi sono concentrata molto e ho atteso l'irreparabile. Che non è avvenuto.

Non salivo su un aeroplano da quasi vent'anni. I motivi sono tanti, uno su tutti (inutile nasconderlo) la paura. Al secondo posto la mancanza di occasioni e al terzo la mancanza di soldi quando le occasioni invece c'erano.
Ho preso due voli (a/r quindi tecnicamente quattro) al liceo, per andare in gita scolastica e poi il nulla.
A ventitré anni la trombosi e per un po' di tempo siamo stati troppo impegnati a capire cosa mi fosse successo e ad accompagnare papà dall'altra parte. Una volta chiarito l'intoppo genetico che non mi rende la candidata ideale per svolazzare qua e là, gli aerei ho cercato (anche inconsciamente) di evitarli tutte le volte che ho potuto. Ho fatto lunghissimi viaggi in treno (vedi Genova-Palermo by night), ho rinunciato a tante vacanze che avrebbero necessitato inevitabilmente di un volo, non ci ho pensato finché mi è stato possibile.

Ora però, l'ipotesi di vedere qualche bel posto lontano non è più così remota, la situazione circolatoria sembrerebbe sotto controllo e le trasferte di lavoro tipo quella appena passata mi danno l'opportunità di riprendere a volare in maniera graduale.
Devo solo calmarmi, imparare a gestire la questione puntura la mattina e siringhe nel bagaglio (completamente ignorate, peraltro, dai controlli in aeroporto) e, magari, godermela pure un po'.

Prossimi passi: dotarmi di tutti i presidi esistenti al mondo contro il mal d'aria e guardare tra le offerte per i posti che più vorrei visitare.
Per il resto, si vedrà!

P.S. Nella foto la mia bella Genova, dove ero convinta di atterrare in picchiata :-)