domenica 30 dicembre 2012

You are my sunshine

Ci si alza la domenica mattina e si esce al sole.
La mia domenica è iniziata così, nei posti dell'infanzia, tra le colline che conosco, immersa nella luce, con l'emozione del primo giorno.
Camminare in silenzio, camminare parlando, camminare e basta.
Percorsi che già porto dentro, che un paio d'anni fa sono stati testimoni di momenti dolorosi e che oggi mi hanno accolta con comprensione, nel senso di capacità di capire.
Stanca dall'ultimo allenamento su un corpo per nulla pronto, ho attraversato il sentiero pensando quasi esclusivamente ai miei piedi, guardandoli posarsi sulle pietre, tra l'erba, nella terra. Poi bastava alzare gli occhi per farsi circondare dalla luce, bianchissima, che ha reso nere le sagome degli alberi (proprio come piace a me) e mi ha riempito il cuore ogni minuto.
Una schiena che conosco mi ha camminato davanti tutto il tempo, spesso in silenzio, a volte raccontando vita di montagna, a volte semplicemente fermandosi per aspettarmi. Qualche incontro nei momenti di riposo, per lo più cagnoloni pieni di voglia di giocare e tanti panorami da mozzare il fiato.
Ieri sera cinema, l'ultimo di Clint come ogni anno, niente di che secondo me, un po' di sana (e inquietante) autobiografia, una bella canzone che canto fin da quando ero piccola e che dà il titolo a questo post.
Ma, questa mattina, ciò che per me è sunshine era lì, sul mare d'argento, nel verde del muschio, all'ombra delle rocce, tra gli sterpi secchi, sul pino dritto in mezzo al sentiero, con i fiori viola della partenza, sul pile rosso che mi precedeva, nell'acqua fredda della fonte.
Non capisco mai nulla di me: le insicurezze, le paure, l'amore profondo, i ricordi, l'inadeguatezza e le speranze si fanno mille volte più potenti in questi giorni di casa, montagna e sole, ma ne vale sempre la pena.
Vale la pena di chiedersi, domandarsi, guardarsi dentro, guardarsi negli occhi, ascoltarsi, prendersi sul serio, riderci su, volersi bene e camminare.



London Bridge is falling...

Ieri era il primo giorno dell'anno per me, mi sono alzata presto perché venivano i gemelli (mamma e zio) a portarmi il comò che ho comprato all'Ikea e che io e mamma non siamo riuscite a scaricare, troppo pesante.
Il comò è blu, con tre cassetti e tre buchi dove mettere le scatole, io le ho prese da principessa http://www.ikea.com/es/es/catalog/products/90201513/, poi cercherò uno specchio, ci metterò sopra una lampada e finalmente avrò quasi finito di arredare l'Albero. La colazione al N°1 e poi via da sola, a farmi un giro nei vicoli, come se mi fossi svegliata da un coma lunghissimo e visitassi Genova per la prima volta. Sono partita dalla zona di Macelli di Soziglia, la mia preferita, sono passata davanti a Klainguti e ho sorriso con il mento affondato nella giacca. Sono uscita senza un filo di trucco, pantaloni marroni di velluto a coste, maglione grigio con la spilla-fragola, piumino e berretto, capelli sciolti. In Macelli ho guardato i negozi dell'antiquariato, in particolare quelli di gioielli d'epoca, arrivata in Piazzetta del Ferro sono risalita in Via Garibaldi, volevo vedere l'anello che mi piacerebbe regalarmi, ma il negozio era chiuso. In compenso ho trovato un matrimonio, con la sposa in corto (come penso sarei io, che vorrei, se mai dovesse succedere, farlo d'autunno con un cappottino chiaro), altissima, tutta bianca, con i capelli neri mossi e il braccio sotto quello del suo lui.
Poi, qualche passo più in là, c'era il presepe di un cantiere, immagino lo abbiano fatto gli operai, tra il cemento, gli scavi, i fanali intermittenti e le grate di protezione. A rotta di collo nei vicoli bui mi sono fermata un secondo, sorridendo, davanti a due scritte, la prima recitava London Bridge is falling...ho scoperto essere una filastrocca del 700, inglese, che fa
così:

London Bridge is falling down,
Falling down, Falling down.
London Bridge is falling down,
My fair lady.


Poi ho visto quella quassù, e l'ho fotografata: è così, mi terrorizza.
Da Piazza Banchi sono arrivata al Porto, dove c'era una coda lunghissima per entrare all'Acquario, un attimo prima di fotografare il serpente di persone in fila ho pensato che la luce fosse bellissima, ho chiuso gli occhi e ho scattato un'immagine della mia ombra.
Ho girato attorno a Palazzo S.Giorgio e ho visto le bancarelle...evviva! Dovevo comprare formaggi e salumi per il cenone di Capodanno e non mi andava di prendere roba qualunque, speravo di trovare prodotti genuini, particolari, con una storia...e così è stato.
Ho conosciuto una Signora di Cogne, con cui ho chiacchierato un po', che mi ha venduto dei formaggi e regalato un vasetto di yogurt fatto da lei. Poi, arrivata a casa, mi sono accorta che mancava un pacchetto. Ci sono rimasta male e ho cercato un modo per recuperarla...nella borsa ho trovato lo scontrino (incredibile, di una bancarella!), con un numero di cellulare. Timidamente ho telefonato dicendo: “Scusi parlo con la signora che in questo momento sta alla bancarella di Piazza S. Giorgio?” e dall'altra parte “E io con la ragazza dal berretto marrone?”. Insomma, mi aveva cercata ovunque e io, nel pomeriggio, sono andata a riprendermi il formaggio!
Il mio giro è proseguito in San Lorenzo, sono arrivata sotto casa e sono rimasta incantata davanti alle vetrine di Betty Page, sono azzurre e hanno dei vestiti stupendi. Una volta salita sull'Albero ho sistemato un ciclamino nella pentola di alluminio inutilizzabile, l'ho posato sulla finestra e mi sono occupata dell'elicriso comprato poco prima, nella speranza che resista senza molto sole e mi regali il suo meraviglioso profumo, che sa di giornogiallo e di casa.

venerdì 28 dicembre 2012

Mai dire Maya

Eccoci qua, terzo post dei calzini: è la fine dell'anno.
Sono monotona e ogni volta mi accorgo che i buoni propositi di volta in volta non cambiano quasi. Oggi però aggiungerò delle novità, anche perché le novità ci sono già in entrata.
Intanto il mondo non è finito e come recitano le spille che Wincy e la Mary hanno distribuito nel nostro/loro ultimo aperitivo di Natale: "Mai dire Maya". Poi la casa nuova e tutto quello che comporta sono un incentivo ad aggiungere una buona speranza per il 2013: IMPARARE A VOLERMI BENE. Partiamo già alti.
Ripercorrendo, come già feci l'anno scorso, i buoni propositi prefissati, ecco cosa viene fuori:
PARLARE. Nel 2011 era al primo posto (devo dire quello che penso, devo far presente i miei sentimenti se serve), nel 2012 mi sentivo migliorata, nel 2013 sono regredita. Non so se sia un brutto segno, di sicuro sento maggiormente il bisogno di ascoltare e ascoltarmi piuttosto che di dire e tirare fuori cose.
GUIDARE. Ormai, per decenza, lo tolgo persino dai prossimi buoni propositi.
CONTINUARE A FARE ATTIVITA' FISICA. Ecco, vista la pessima partenza del 2012, con il collo bloccato e il corpo fermo di conseguenza, l'estate è stata ottima tra corse e nuotate e in questo momento scrivo a letto dopo un'ora di pilates tanto massacrante che fatico persino a lavare i piatti.
LEGGERE. Non mi pare di aver letto molto, non più del solito, quindi spero di riuscire a recuperare nell'anno che verrà.
LAVORARE. Qui il tasto si fa dolente, tra un lavoro in uscita su cui ancora non riesco e non voglio scrivere (chissà se mai lo farò), c'è una grossa possibilità in entrata, che potrebbe significare tranquillità economica per un paio d'anni, possibilità di dedicare agli altri piccoli impieghi il tempo che resta ma senza affanno, Vacanze (con la V maiuscola, anche di un paio di giorni, ma via da qui verso posti che non ho mai visto), cibo buono senza fare i salti mortali per comprarlo, giri da Feltrinelli con qualche scrupolo in meno se un libro mi rimane irrimediabilmente incollato alle mani.
STUDIARE. Se il lavoro sicuro di cui sopra dovesse effettivamente cominciare, studiare sarà indispensabile per svolgerlo al meglio, rispettando scadenze e consegne, portando avanti l'impegno del dottorato e sentendomi a posto dinanzi alle difficoltà inevitabili che ogni nuova esperienza porta con sè.
AMARE. Qui ho dato il meglio di me, amando all'improvviso gli occhi di una vita e dicendolo pure, dopo un sacco di tempo. Ho amato anche me stessa, concedendomi di guardarmi dentro e ascoltarmi in silenzio e solitudine, ho amato gli amici osservando da lontano gli affetti storici come la Ale e Fra e avvicinandomi un poco ai nuovi arrivi come Edu e ai ragazzi che adesso mi vivono attorno, in questa cornice cittadina. Ho amato i gesti di chi mi vuole bene e lo dimostra sempre, ho amato i luoghi dello Sminatore e quelli della mia infanzia, ho amato musiche, libri e film, ho amato profumi, gusti e momenti. Ho amato fare l'amore più di sempre, cucinare e prendermi cura di me. Insomma, ho amato tanto e mi è piaciuto.
I desideri per il 2013 sono simili a quelli passati, per forza di cose non posso non sperare nella serenità di mia mamma, degli amici più cari, delle mie persone.
Mi auguro di non rimanere delusa dalla gente come nel 2012, anno in cui ahimé è capitato più spesso di quanto potessi immaginare. Vorrei sentirmi meno frustrata nel lavoro, acquistare dignità in questo campo in cui così spesso mi lascio sopraffare senza motivo, trarre soddisfazione nell'imparare e nel mettermi alla prova.
Scrivo tutte queste cose consapevole di avere già molto: sono piena di sentimenti, vivo nel posto che ho costruito prima con il pensiero e poi nella realtà in un anno esatto, sono ancora capace di sorprendermi per le cose, anche piccole, che vedo ogni giorno, posso godere di buona compagnia ogni volta che lo desidero e ho una gattina meravigliosa...ma sperare in un anno buono è un diritto di tutti, anche mio!
Staremo a vedere...

sabato 22 dicembre 2012

Fronte

Io ho la fronte alta e non mi piace.
Ho sempre cercato, da quando ho lasciato crescere i capelli, di nasconderla con un po' di ciuffo, per un certo periodo ho anche portato la frangetta, ma non c'è verso, esce sempre allo scoperto, prepotente.
La mia fronte è piena di rughe, linee lunghe, profonde e fitte che la attraversano in orizzontale, soprattutto se mi stupisco e inarco le sopracciglia più del solito.
Io non le sopporto, in particolare ora che stanno spuntando i primi (tanti!) capelli bianchi, mi sembra una congiura per ricordarmi che ho superato i trenta e che il tempo scorre più velocemente di quanto sembri.
In realtà, di solito, le altre persone non mi guardano la fronte come se fosse brutta quanto pare a me, al limite mi chiedono informazioni sul neo tondo che sta sulla destra, mi domandano da quanto lo abbia, il perché non lo tolga, se per caso sia il pulsante dell'autodistruzione (ah ah), eccetera eccetera.
Le prime coccole della mamma che io ricordi erano proprio lì, leggeri passaggi del suo indice dal centro della fronte alla punta del naso. Anche più tardi, i gesti di maggiore tenerezza che ho ricevuto riguardavano sempre questa parte del corpo, una carezza, un bacio, un tocco del dito dove inizia il naso.
In particolare, anni fa, ricordo i numerosi tentativi per cercare di spianare il mio proverbiale "corrucciamento", che non so se sia mai sparito o diminuito, ma che sicuramente mi contraddistingue da quando sono piccola.
Serate di chiacchiere e di punta delle dita che indugiavano proprio lì, tra gli occhi, dove concentravo inesorabilmente i miei cattivi pensieri.
Ultimamente mi è di nuovo capitato di pensare alla mia fronte e, questa volta, mi sono concentrata sulla parola e sul suo significato. Fronte come parte del corpo e come fronte di guerra. La finestra di fronte, frontale, frontiera, fronte/retro, frontespizio, fronteggiare, a fronte, al fronte...ma la mia preferita è affrontare.
Forse che le rughe che passano sotto il mio ciuffo non siano altro che percorsi? Passaggi affrontati? Problemi, dolori, difficoltà, fronti di guerra? Ma anche espressioni buffe ripetute tante volte per fare ridere le mie persone, per giocare con i bambini, per guardare storto la gatta che mi morde il gomito mentre scrivo, per ridere di gusto con gli amici, stupirmi delle cose della vita, mettermi il mascara, provare piacere.
Sulla fronte calco i cappelli che in inverno non tolgo mai, espongo questa parte al sole d'estate ed è la prima a diventare rossa, la metto in mostra con la coda alta mentre corro, faccio pilates e altre cose che non si scrivono qui, spunta fuori inevitabilmente se mi vesto elegante e raccolgo i capelli in un muccio, si lascia massaggiare dalle mie dita quando ho male alla testa, si appoggia alle braccia conserte sul tavolo nelle pause di lavoro.
Una personale linea di battaglia, un cortile assolato in cui far correre le emozioni, uno spazio ampio, anche troppo, dove liberare e liberarmi dai pensieri.





mercoledì 19 dicembre 2012

Snowglobe e febbre

Quarto giorno di febbre, divano e mal di testa.
Oggi forse va leggermente meglio, ma guarire è un'altra cosa.
Questa mattina impegni di forza maggiore mi hanno tirata giù dal letto: un pezzo di vita da chiudere, non si può dire senza rimpianti, di sicuro senza rimorsi.
Poi di corsa al supermercato a comprare tutto l'occorrente per preparare le mie celebri Bombe di Natale (di cui ho già scritto pure qui, troverete il post sotto le Feste di due anni fa, direi) e avere così il pomeriggio pieno.
Negli ultimi giorni di isolamento forzato mi sono messa a costruire regali di Natale home made, con oggetti che trovavo in casa e che potevo comprare a prezzi ultra modici.
L'idea di quest'anno (l'anno scorso, se non sbaglio, erano gli alberelli in feltro e due anni fa i segnaposto personalizzati) ha previsto la realizzazione, in serie, di una decina di palle di vetro natalizie, di quelle con la neve dentro che usavano tanto quando ero piccola.
La spinta me l'hanno data diversi fattori: il racconto di un amico che aveva incontrato un oggetto simile sulla sua via qualche anno fa, la mancanza completa di soldi per comprare i regali, la voglia che si rinnova ogni anno di usare le mani e costruire qualcosa di personale, la semplicità con cui in rete ho trovato informazioni utili per reperire il materiale e realizzare la pallina, la necessità di stare chiusa in casa al caldo.

Ecco cosa occorre per una pallina:
- 1 barattolo di vetro con chiusura ermetica (qui a Genova si chiamano arbanelle)
- acqua distillata
- glicerina (si trova in farmacia)
- glitter o neve finta (io ho faticato a trovarla, ormai è quasi tutta spray)
- pupazzetti, possibilmente in plastica e di piccole dimensioni
- colla idrofuga
- feltro

Procedimento:
La parte più difficile in assoluto per me è stata...la rimozione delle etichette dai barattoli! Ormai il bisogno di "brandizzare" tutto porta ad usare colle super resistenti in ogni occasione, affinché la marca, il simbolo, insommma la pubblicità, siano pressoché eternamente appiccicate dove devono stare. Quindi, con l'aiuto di un toglicolla chimico che ha reso il mio bagno una camera a gas in 30 secondi, acqua calda, sapone per i piatti, sapone per le mani e spazzole varie ed eventuali, ho tolto le etichette e reso così neutro il mio barattolo.
La prima fase si svolge sul coperchio: occorre infatti coprire la base esterna con uno strato di feltro, cosìcché la palla appoggi sulla stoffa e non scivoli. Poi si scelgono i personaggi da attaccare all'interno del coperchio e che finiranno quindi immersi nell'acqua. Qui ci si può sbizzarrire con omini dei presepi (la mia condizione di atea mi ha fatto ripiegare per un'altra scelta ma l'idea comunque non é male), pupazzetti dei cartoni animati (decisamente più costosi), oggetti acquistabili presso i negozi di hobbistica (tipo miniature o simili) oppure, come ho fatto io, piccoli addobbi da appendere all'albero di Natale. Io ho trovato e preso al volo un'offerta di un grande magazzino, che vendeva a metà prezzo una scatola di Babbi Natale, pupazzi di neve, angioletti, abeti, campanelle e compagnia bella, pieni di colori e atmosfera festante. Unico difetto: sono di legno. Visto che l'acqua lavorerà sul suo contenuto temo che i pupazzi inseriti quest'anno non dureranno fino a Natale 2013, però chi può dirlo, ci si prova.
Quindi, una volta scelti i protagonisti occorre attaccarli, con una colla che non tema l'umido, alla base interna del tappo. Intanto che la colla asciuga bisogna riempire il barattolo d'acqua distillata, aggiungere un goccio di glicerina (poca!) e i glitter, io li ho scelti semplici color argento, ma si può optare per altri colori e forme.
Una volta che i pupazzi sono ben saldi e la colla è asciugata basta chiudere il barattolo...e scuotere!
L'effetto è antico, come l'idea che ho io della sfera di neve e di molte altre cose. Per coprire bene il tappo magari si può usare una striscia di feltro da chiudere attorno al barattolo con un fiocco, ma queste sono tutte idee che vengono in corso d'opera.
Il bello di questo regalo è la magia, il cosiddetto "effetto wow", ma anche la possibilità di personalizzarlo al massimo, sia sui propri gusti sia su quelli del destinatario. A partire dalla scelta del barattolo, forma e dimensioni sono variabilissimi (nella foto, a sinistra, la bottiglia di succo alla pera fatto in casa che ho restituito a Sturm), per arrivare ai personaggi inseriti all'interno e al colore della stoffa. L'unica miglioria per l'anno prossimo sarà costruire una base, non so ancora con che materiale di recupero, pensavo al "culetto" dei vasetti di yogurt che intanto io consumo in grandi quantità, per rialzare un po' i pupazzetti e renderli più visibili.
Tutto qui e Buon Natale, vado a farcire i datteri.




domenica 16 dicembre 2012

I still have me

Ho ripescato la foto in un album scattato anni fa, al MART di Rovereto.
Perché? Non lo so, perché mi piace la frase, perché fa freddo come nel profondo nord, perché sì.
Prima neve sull'Albero della Coccagna e prima febbre. Sono a letto che scrivo, sotto al piumone, caloriferi accesi e mille maglie una sopra all'altra. Mi pareva di essermi coperta a sufficienza in questi giorni, anche sotto la bufera, anche dopo la palestra, anche solo per uscire a comprare le arance. Evidentemente non è bastato.
Ho trascorso una settimana pesante, piena di scadenze, tra cui l'ultimo grosso esame del 2012. Un argomento completamente oscuro per me, un professore che dicevano essere severo e pignolo, poco tempo per preparare la presentazione e per imparare un minimo di teoria in più, giusto per non fare scena muta davanti alle domande.
L'esame è andato bene, benissimo. I mille passaggi burocratici per mettere un punto alle questioni lavorative si superano pian piano e altrettanto lentamente ci si avvicina ad avere le grandi risposte per il mio futuro economico, qualsiasi esse siano.
La febbre, portata dal freddo, potrebbe anche avere una componente di stanchezza cosmica accumulata, conoscendomi, ma basta non farsi domande e ascoltare i consigili di chi mi conosce e ha visto cosa è in grado di inventarsi il mio corpo quando è eccessivamente sotto pressione.
In questi giorni appena trascorsi ci sono state tante chiacchiere, parole spese a pranzo con gli amici, camminando nella neve, silenzi pieni di cose, fiumi di spiegazioni, racconti dolorosi e vicinanze che terminano con dolcezza e affetto infinito. Qualcuno di davvero importante mi ha ricordato la fortuna che ho, a poter godere dell'indipendenza senza essere sola, grazie, è proprio così. So di non essere sola, so che in qualche modo le cose che ancora non vanno si aggiusteranno, so che anche la febbre di oggi passerà senza gli strascichi dell'ultima. Nel frattempo le piante del bagno sono fiorite, i bulbi nella piccola serra fanno capolino anche se pallidi per la poca luce che entra in casa, l'alberino si illumina sul panchetto giallo e le idee home made per il Natale prendono piede nella mia testa.
Spero di riuscire, già questa sera, a inventarmi qualcosa per i regali, da preparare con calma ascoltando la musica e bevendo una tisana calda. Per adesso, non se ne parla, meglio il piumone...


venerdì 7 dicembre 2012

Fake and Pie

Primo post scritto sull'Albero della Coccagna.
Prima torta di mele preparata nel forno.
Chissà come sarà...il profumo sembra buono e vederla lì, fumante sul tagliere, è comunque una piccola soddisfazione. MI sono persino comprata il gelato alla crema da mettere accanto, con una spolverata di cannella sopra.
Seduta qui sul divano, finalmente, mi riposo un po'. Giornata, ennesima giornata, di adempimenti burocratici e studio di argomenti incomprensibili: frustrazione diffusa e faticosa. Poi però sono uscita dall'ufficio che si gelava e come al solito il freddo freddissimo mi avvicina a chi ama questo clima per me così difficile. Sentire mani, naso e orecchie intirizziti mi fa pensare allo Sminatore immerso nella neve, felice, con gli occhi pieni di montagna.
Arrivata a casa mi sono infilata una felpa e un paio di leggings al volo per provare una lezione di pilates nella palestra dove vorrei iscrivermi, l'impressione è stata ottima e mi è parso di entrare in contatto con me stessa dopo tanto tempo. Se non riesco a parlare con il mio cervello almeno provo a farlo con il mio corpo.
Poi la spesa e via in cucina: cous cous e torta di mele.
Con quelle grandi mele rosse che fanno tanto inverno, comprate e messe nella ciotola di legno vicino a un melograno, troppo bello per lasciarlo nella cesta del supermercato.

Ecco gli ingredienti:
- 700 gr di mele
- 200 gr di zucchero
- 200 gr di farina
- 100 gr di burro
- 200 ml di latte
- 2 uova
- 1 bustina di lievito
- zucchero a velo
- cannella
- sale
- limone

Procedimento:
Tagliare a fette le mele, lasciandole in una terrina piena di succo di limone, per evitare che si anneriscano. Grattugiare la scorza del limone e aggiungerla allo zucchero, alle uova, al latte, al burro sciolto a bagnomaria e alla farina (che setacciata è meglio). Mescolare tutto con una frusta, io ho usato un cucchiaio di legno con il buco e mi pareva andasse bene lo stesso. Una bustina di lievito (la ricetta parlava anche di vanillina, io ho preso direttamente il lievito vanigliato e buonanotte), un pizzico di sale e un poco di cannella. Una volta immerse le mele in questa crema si cosparge di zucchero a velo e cannella e si inforna tutto a 180° per 50 o 60 minuti. Se poi il timer è buffo come la mia gallina accovacciata...tanto meglio.
Qui è sorto per me l'unico problema: dopo 40 minuti l'ho tolta perché mi pareva si bruciasse, magari ora scoprirò che è cruda, pazienza, devo prendere confidenza con il nuovo forno!

Difficoltà: media
Cottura: chilosà
Costo degli ingredienti: medio-basso (sono tanti, quindi alla fine un pochino si spende, soprattutto se si intende aggiungere il gelato)

La mia serata in cucina è stata accompagnata dai The National, che in verità sono con me da questa mattina. In particolare Fake Empire...

Stay out super late tonight picking apples, making pies
Put a little something in our lemonade and take it with us
We're half awake in a fake empire
We're half awake in a fake empire

Tiptoe through our shiny city with our diamond slippers on
Do our gay ballet on ice, bluebirds on our shoulders
We're half awake in a fake empire
We're half awake in a fake empire

Turn the light out say goodnight, no thinking for a little while
Let's not try to figure out everything at once
It's hard to keep track of you falling through the sky
We're half awake in a fake empire

We're half awake in a fake empire


e direi che non mi sarà difficile imparare a memoria l'ultima strofa...


lunedì 3 dicembre 2012

Everybody's gotta learn sometime

Passa il tempo.
L'orologio giallo appeso in cucina me lo ricorda prepotente ogni giorno. Fa rumore, soprattutto dopo il quarto, poi diventa inspiegabilmente più leggero.
Forse sa che la notte io faccio fatica e quindi quando supera la mezza e si avvicina alle ore più tarde rende soffici i secondi.
Tra meno di un'ora presentazione per il secondo anno di dottorato, sono agitata.
Tra poco più di dieci giorni esame di chimica bioorganica, non ho idea di come e cosa studierò.
Tra un mese e due giorni compirò 31 anni, se possibile peggio dei 30. Dopotutto un'età bella, se mi volto indietro e guardo i 21 mi viene voglia di accendere un petardo e brindare alla vita.
Poco dopo il mio compleanno saprò se per due anni la mia situazione economica cambierà e io potrò respirare e comprare, se vorrò, un matita per gli occhi o un biglietto per il cinema senza contare i soldi nel porta monete.
Passa il tempo e penso a chi arriva e a chi va via, a chi ha lasciato un segno e a chi ha tracciato una ferita, a chi mi ha dato amore e a chi mi ha fatto male, a chi vanno i miei pensieri di ogni giorno e a chi sembra non esserci mai stato.
Per anni ho giustificato, mi sono arrabbiata in silenzio, ho patologicamente rifiutato contatti e ancor più morbosamente cercato vicinanze.
Ora basta, passa il tempo e io non calcolo più.
Inutile cercare spiegazioni, molto meglio guardarsi negli occhi e parlare, mettere nero su bianco paure e difficoltà, dirsi dove stanno gli ostacoli e tendersi la mano per superarli, magari anche per dividersi subito dopo.
In uno dei libri che amo di più, di cui ho già scritto anche qui, c'è una frase importante: "Non era il mondo la grande menzogna salutare: lo era la sua volontà di renderlo bello e giusto". E' così, non ci sono cose che non vanno, persone inappropriate, comportamenti errati. Ci sono cose e ci sono persone.
Che se non portano positività nella nostra vita vanno evitate e basta, perché niente servirà a renderle belle e giuste.
Da piccola la mia innocenza è stata disfatta da persone così, in maniera irrecuperabile. Crescendo ho permesso io che mi si giudicasse, mi si calpestasse, mi si usasse perché in quel momento era comodo, mi si tentasse di cambiare, mi si aggredisse, mi si umiliasse, mi si trattasse come se il mio essere forte fosse sinonimo di invulnerabile, mi si lasciasse sola, mi si insultasse, mi si colpisse in faccia con le parole.
La chiave di tutto è in quel "ho permesso", perché non ci sono colpe, ma solo responsabilità. Innanzi tutto la mia che mi sono lasciata giudicare, spesso essendo più severa di chi aveva iniziato. La mia che mi sono sdraiata a terra come uno zerbino, che ho smussato e tagliato pezzi di me, che sono arrossita e ho ingoiato il magone davanti alle umiliazioni, che ho sorriso e mi sono fatta coraggio davanti alla vagonata di disgrazie in cui sono stata coinvolta, che sono tornata come uno stupido cane da chi mi aveva abbandonata tante volte, che ho risposto agli insulti cercando di capirli e che ho offerto l'altra guancia agli schiaffi di parole.
Non sono arrabbiata con nessuno, adesso. Ho solo compreso dov'è il mio posto, cosa desidero e cosa merito. Ho visto cosa mi piace fare, chi voglio frequentare, dove sono le mie persone e perché sono ogni istante nei miei pensieri.
Passa il tempo e non è cambiato nulla, solo ci vedo meglio.


sabato 24 novembre 2012

Basta

E' sabato, sono tornata a casa.
Quale casa?
Quella di sempre, fatta di luce, fusa, peperoni arrostiti, primule e legna che arde.
Dopo una settimana piena sull'Albero della Coccagna avevo bisogno di me e delle mie radici. Per iniziare con calma, senza strappi, per mantenere uno spaghetto attaccato all'infanzia, per calpestare i miei sentieri che per anni sono stati un labirinto e un rifugio.
Scrivo con Agata che mi trotterella intorno e si struscia sulle caviglie, mentre mamma cucina una montagna di verdure e i miei pensieri scorrono veloci. Devo comprare ancora un po' di cose per la casa, recuperare vestiti e, soprattutto, lavorare.
Consegne enormi per il dottorato tra soli due giorni, altre consegne ancora più enormi tra una settimana, un esame da preparare in pochissimo tempo, un impegno lavorativo che non riesco ad incastrare, una pesantezza gigante sul cuore.
Poi però ci sono gli amici che se ne accorgono, che vedono il tuo stare un po' così e ti chiedono "che passa", c'è la mamma che prova ad organizzarti la vita per toglierti un peso, c'è il silenzio della casa nuova e la cassetta degli attrezzi che ti manda lo zio per essere preparata a tutto.
Ci sono i pomeriggi a letto, a guardare il soffitto e a chiedere di cosa sarà fatta la trave gigante che attraversa la stanza? Castagno, pare.
Ci sono le serate al Circolo, tutta di verde vestita, dove una voce commuove, gli abbracci degli amici riscaldano, le visite innamorano e la zuppa di zucca riempie lo stomaco.
Ci sono i racconti di viaggio e le riviste di design per la casa da sfogliare sul lettone con mamma, gli elenchi delle cose da comprare e la musica che suona ininterrotta.
Tutto quello che avevo immaginato, o quasi, ora è qui. Devo solo convincermi che basta, che nonostante gli incubi di questa notte, fatti di paura, solitudine e violenza, le cose andranno bene. La palestra funziona, basta iscriversi. La relazione è quasi finita, basta inviarla. Il lavoro è quasi concluso, basta chiuderlo. Le amicizie sono forti, basta frequentarle. L'amore è profondo, basta crederci. La casa è accogliente, basta viverci.

P.S. Per la foto, grazie a Balletti, uno dei miei nuovi vicini di casa...

lunedì 19 novembre 2012

Accoglienza

Post breve, troppi impegni e scadenze da rispettare, poco tempo e nessuna connessione internet a casa.
Cosa significa la parola Accoglienza?
Da uno dei tanti dizionari on line: Azione e modo dell'accogliere, del ricevere qualcuno.
Questo è quello che vorrei per la mia casa. Che fosse un luogo dove tutti si sentano accolti, dove gli spazi siano condivisi ma anche privati, dove chi desidera tranquillità possa trovare un divano comodo e un dondolo che lo culli, dove chi ha fame possa sedersi in cucina e guardarsi attorno, tra colori, piante e tazze che fumano.
Vorrei che la mia camera da letto fosse mia, l'indispensabile tana per curare i miei momenti difficili, quando scostare il piumone sembra impossibile.
Vorrei stare sola. Con me.
Per le stesse ragioni che mi hanno spinto a fare il trasloco da sola, svuotare le scatole da sola, scegliere i colori, i mobili, i piatti e le stoffe da sola.
Perché pochi anni fa, quando uscire dal pantano pareva un'impresa disperata, non avrei mai creduto di farcela. Perché grazie a mia mamma, alla sua generosità, ma anche grazie al mio coraggio e alla voglia di provare a misurarmi con me e con la mia incapacità a tenere in piedi relazioni durature o convenzionali, ho deciso di andare via e di farlo da sola. Gondendo dei privilegi dell'indipendenza certo, ma anche ritrovandomi davanti allo specchio con la voglia di parlare a qualcuno che ascolti cosa sento, infilando le chiavi nella toppa con la consapevolezza che la casa sarà fredda come l'ho lasciata alla mattina quando sono uscita e che la cena sarà ancora da preparare. In compenso però avrò più tempo per me, che significherà dare spazio ai miei bisogni e trovare carburante per i miei affetti.
Iniziando da un pezzo di legno chiaro e profumato posato sul comodino...

P.S. Nella foto un'immagine all'ESEM, un brandello dell'esame di dottorato preparato durante il Festival e sostenuto pochi giorni fa, con grande soddisfazione.


sabato 10 novembre 2012

Alla fine ho smesso di sapere cosa stessi cercando così a lungo

Le cose non accadono mai per caso, o almeno così si dice.
Qualche giorno fa il mio professore di italiano del liceo ha segnalato questa poesia di Wislawa Szymborska, che, inutile dirlo, mi piace molto.
Ma non è solo una questione di gusti letterari ovviamente, qui si tratta di sentimenti spostati, eccitati, svegliati, non a caso il titolo è "Nel sonno".
In questo periodo di cambiamenti, tra scatoloni, libri ingialliti, pezzi di me che si fanno lontani non appena li accarezzo, le parole di Wislawa sembrano fatte apposta.
Eccomi:
"Rovistavo in armadi, scatole e cassetti, inutilmente pieni di cose senza senso"
"Scuotevo fuori dalle tasche lettere secche e foglie scritte non a me"
"Tiravo fuori dalle mie valigie gli anni e i viaggi compiuti."
"Correvo trafelata per ansie e stanze mie e non mie"
"Mi ingarbugliavo in cespugli di spine e congetture"
"Spazzavo via l’aria e l’erba dell’infanzia"

Eccola:

Nel sonno

Ho sognato che cercavo una cosa,
nascosta chissà dove oppure persa
sotto il letto o le scale,
all’indirizzo vecchio.

Rovistavo in armadi, scatole e cassetti,
inutilmente pieni di cose senza senso.

Tiravo fuori dalle mie valigie
gli anni e i viaggi compiuti.

Scuotevo fuori dalle tasche
lettere secche e foglie scritte non a me.

Correvo trafelata
per ansie e stanze
mie e non mie.

Mi impantanavo in gallerie
di neve e nell’oblio.
Mi ingarbugliavo in cespugli di spine
e congetture.

Spazzavo via l’aria
e l’erba dell’infanzia.

Cercavo di fare in tempo
prima del crepuscolo del secolo trascorso,
dell’ora fatale e del silenzio.

Alla fine ho smesso di sapere
cosa stessi cercando così a lungo.

Al risveglio
ho guardato l’orologio.
Il sogno era durato due minuti e mezzo.

Ecco a che trucchi è costretto il tempo
dacché si imbatte
nelle teste addormentate.

martedì 6 novembre 2012

Germogli

E' martedì e fuori piove con il sole.
Io sto malissimo, ricomincio solo ora a respirare un po', dopo 24 ore di apnea e dolore alla cassa toracica, come se un grosso fauno stesse lì seduto a osservarmi. Come in L'Incubo, di Füssli, uno dei miei quadri preferiti.
Le motivazioni non le conosco, stanchezza post Festival? Ansia da gestione trasloco e ultimi, insapettati, costosi e problematici lavori all'albero della Coccagna? Sensazione di inadeguatezza diffusa? Paura del futuro incerto sotto ogni punto di vista? Freddo boia beccato in casa, in barca, per strada? Azione massacrante del divano letto sulla mia schiena già decisamente massacrata? Agitazione per l'esame di domani?
Non lo so. In ogni caso sto male, non ho appetito e ho una faccia che sembra mi abbiano pestato senza pietà.
Questo è il primo post del dopo Festival, quello in cui dovrei raccontare cosa sono stati gli ultimi dieci giorni. Visto che ho appena finito di correggere una presentazione power point di 52 slides, visto che mi impegnerà tutto il pomeriggio, tutta la sera e tutta la mattina di domani nelle varie operazioni di rifinitura, esposizione e ricerca di definizioni improbabili, visto che sono stanca e poco concentrata, visto tutto questo userò uno dei migliori alleati per descrivere il mio Festival della Scienza 2012: l'elenco.
Spazio per le parole, che siano sensazioni, immagini, colori, odori, emozioni, volti, rumori, sguardi. Lascio scorrere le dita e Crystal Winter di Ferreira, con dolcezza e un timido tentativo di ammorbidire i miei muscoli accartocciati.
il legno del Maso, le acciughe a colazione, le macchie d'olio a pelo d'acqua, il trapano dentro i miei muri, le lacrime di fatica, le lampadine a basso consumo, le eliche nere di Jonathan, i libri finiti e cominciati, il cioccolato africano quello kinder quello caldo e quello dei pasticcini, i treni per tornare nel giardino incantato, il verde della mia felpa e dei tubi del robot, lo spirografo con la sua lingua, il vento forte che stanca le ossa, l'ombrello rosa, le foglie di castagno e quelle di rovere, la panna McKenzie, la musica a casa al circolo in barca al conte e alla festa, lo jedi che racconta il mare, la pasta al sugo di Gai, l' "i dont' care i don't care i don't care" di Edu, la pioggia forte e fortissima, il regalo per il vicino-vicino, gli amici che sono il tuo specchio mentre cantano con la mente e con il corpo, la cattiveria che arriva quando provi a riposare, la notte difficile, il freddo terribile, lo specchio nuovo per il mio bagno, le righe sulle maglie le felpe e le calze, gli etruschi che non so, i cinghiali spaventati, il dolore della paura, il profumo del parcheggio, il minestrone con il pesto, le cartoline per il don, la doccia calda di Nessie, i diciotto anni a colori, le fotografie con gli animatori, le telefonate tra un gruppo e l'altro, la focaccia sulla chiatta, 587 in entrata e in uscita, il ciclista riparatore che arriva all'improvviso, le scale lunghe in mezzo ai vicoli, le voci belle intorno a me, il riconoscere la purezza di uno sguardo, il "mazinga zetto" di un bimbo piccolo, la curiosità nelle mani alzate, il camminare tra le strade della città e tra i sentieri della campagna, gli stivali da pioggia, la sorpresa negli occhi dei bambini, le letture alla luce della piantana nuova, il dondolio della barca, il sale nel naso e sulle labbra, la lavanda sul pontile, il rimorchiatore arancione, i cefali coraggiosi, la folla davanti all'Acquario, le parole di ogni giorno, il giallo della mia sciarpa e del cellulare nuovo, le gestualità che spiegano più di mille parole, i "per così" di Lorenzo, lo scheletro di Daniele, lo zaino fatto e disfatto mille volte e quello al riparo dietro al bancone, le finestre aperte di Stradone S. Agostino, il sax di Giancarlo, i silenzi pieni di parole, le visite che aspetti con gioia, la sete di notte, il vino buono e quello cattivo, lo scrivere all'ultimo minuto, l'inadeguatezza che non mi lascia mai, l'acqua del porto e quella nei bicchieri di plastica di mano in mano, il karkadè rosso scuro, il galeone alla mia sinistra la mattina presto, gli occhi grandi e i sorrisi sdentati, il bianco del primo appuntamento di Gai e Nicoletta, i pomeriggi con mamma, il casco di Francesco, il montgomery e i mille alamari di ogni sera, le domande dei grandi, il sorriso inaspettato e luminoso di Giorgia, i ragazzi di colore con i loro braccialetti, la spremuta di posidonia, gli occhioni liquidi di Federica, i saluti piccoli del pubblico, la ricerca del cibo, la simbiosi dell'anemone, la fila di bombole gialle, la vela della Scuola che abbiamo odiato tutti, la coda in sopraelevata, l'ikea nei turni liberi, i compleanni dentro al Festival, la Pyro perfetta, il N°1 bar ufficiale, il germoglio segnalibro: quello della foto, regalo inaspettato e dolce chiusura per questo mio Festival 2012.
Al prossimo anno.


lunedì 29 ottobre 2012

Volersi bene

Oggi è stata una bella giornata. Oggi sono tornata a casa.
Ci sono poche cose che mi rimettono insieme come un bosco in autunno. Se poi le foglie a terra, metà arancio e metà verdi, metà accartocciate e metà dritte come lance, sono quelle di castagno, sono in pace. Quando ero piccola con le foglie di castagno costruivo il copricapo indiano, infilavo un gambo in una punta fino a creare il cerchio per la fronte e con la foglia più bella, quella più grande e regolare, facevo la penna.
Oggi nel bosco non ho raccolto foglie, ma ne ho viste tantissime. Ho annusato l'odore della terra umida, ho raccolto funghi con gli occhi, funghi viola, funghi piccoli, funghi enormi, funghi soli, funghi in gruppo, funghi brutti, funghi strani e funghi pericolosi. Ho visto capre dalle corna grosse, due maiali fidanzati e dei tacchini in lontananza. Mi sono lasciata seguire da un cane più diffidente di me, ho mosso il tappeto di rami e cose secche ad ogni passo. Accanto, in silenzio o quasi, lo Sminatore. Nel marrone dei tronchi passavamo noi con i nostri rossi forti, la mia giacca, il suo pile. Nel silenzio del bosco le voci, i racconti dei giorni passati, il mio bisogno di aiuto per situazioni che da sola non capisco e non riesco ad affrontare come vorrei. La sua voce mi calma, anche quando è dura.
Ero in affanno sul sentiero, avevo dormito poco l'ultima notte e le ore di turno al Festival, in un porto baltico super affollato, non aiutano a sentirsi riposati. Ma questi gruppi di ore, scanditi da visite, domande, piedi piccoli e occhi grandi, abbracci che arrivano a malapena alla cintola e disobbedienze inevitabili, risate e soddisfazioni, pensieri e spensieratezza, valgono tutta la stanchezza che sento.
Oggi però il bosco mi serviva, così come mi serviva il silenzio dello Sminatore mentre aggiustavo patetica il mazzo di fiori di plastica davanti a quello sguardo in bianco e nero e quel mezzo sorriso uguale al mio.
Mi hanno fatto bene le pause, le battute, i dispetti e il panorama. Mi hanno fatto bene il sole caldo e l'ombra fredda, il passo reso svelto dal buio in arrivo e reso immobile dal cinghiale sul sentiero. Ho avuto paura, più paura di quanto mi aspettassi, di quelle paure che poi stai zitta e ti dici che tra poco ci siamo, che tra poco arriviamo a casa. Quelle paure che le cose non le dici solo a te stessa ma le ripeti pure ad alta voce e chi ti è accanto ti risponde solo "sì sì" perché lo sente che hai paura.
Che poi, uno Sminatore, è concentrato e sensibile per lavoro no? Quindi lui le cose le sente sempre, tira fuori la bomba a costo di lavorarci una vita, scopre fili pericolosi, decide quale tagliare e quale tenere, sposta momenti nel tempo, lasciando sfogo alla sua parte emotiva quando è troppo pericoloso soffocarla.
Sento casa ad ogni passo nel bosco, un letto di foglie che riesco perfettamente a ricreare in città, basta pensarci e staccare tutto, basta mettere a fuoco i punti verdi che si incontrano e portarseli dietro, le foglie palmate incollate dalla pioggia sul lunotto posteriore di un'auto in soprelevata, gli alberi di falso pepe sotto la tana di un tempo, i fiori violentati dal sale sul pontile della barca.
Nel mio bosco, con un passo accanto che faccia risuonare il mio, niente mi fa pensare che non valga la pena lottare, cercarsi, rispettarsi, perdonarsi e volersi bene.

domenica 21 ottobre 2012

Magnolia

Tra pochi giorni comincerà il Festival della Scienza, il mio terzo Festival.
L'anno scorso mi era parso di arrivarci stanca, primo anno di dottorato, relazione all'inizio di dicembre...quest'anno è molto peggio.
Così, per dire due cose velocemente, poi sul Festival tornerò solo a conti fatti come al solito, mi aspettano due articoli in consegna all'inizio della prossima settimana e arrivati all'improvviso, un power point molto importante da presentare dopodomani, delle analisi stra urgenti da interpretare e continuare in museo, dei turni al circolo, un trasloco. Un delirio insomma.
Ma su questo, semmai sopravviverò, scriverò un'altra volta.
Ora è indietro nel tempo che voglio tornare, per ricordare, in vista della mia nuova casa, quella in cui sono nata (e cresciuta fino ai 12 anni).
Quando ero piccola vivevo in una villa, che detto così sembra figo. Questa villa era immersa nel verde ma in bocca all'autostrada, come molti dei palazzi storici di Liguria, inghiottiti da viabilità quantomeno discutibili, assaliti da industrie, campi da calcio e complessi residenziali che dire orribili è dire poco, abbattuti per lasciare spazio ad altro, a qualcosa di più moderno e sicuramente più remunerativo.
La casa dove sono nata era grande, aveva un giardino attorno con una magnolia enorme che arrivava oltre le finestre della cucina, aveva dei ninfei sul retro e una scalinata con due leoni di marmo. Io infilavo sempre le dita nelle narici dei leoni e parlavo con loro, li toccavo, salivo in groppa e sentivo sotto i polpastrelli la consistenza zuccherina della roccia esposta al vento, al sale e alla pioggia, tutte cose che poi avrei studiato all'università. La mia casa aveva un salone gigante, completamente affrescato con bambini nudi e fiori e cornucopie e decorazioni sui toni del verde (ovvio, era casa mia!), aveva la moquette, l'angolo bar, le librerie alte e i contenitori per i miei giochi. Qui ci facevo il presepio con papà, l'albero con mamma e giocavo seduta per terra con qualunque cosa mi capitasse a tiro (anche con i fiammiferi, come nella foto).
Nelle altre stanze non stavo quasi mai, non dormivo volentieri e nemmeno mangiavo con gusto, il tinello lo usavo giusto per spaparanzarmi davanti alla tv con il siamese piagnone sotto l'ascella o il succo alla pera con la cannuccia, mentre fare la doccia nella vasca significava morire dal freddo velocemente in un posto potenzialmente tiepido, schiumoso e calmo. La cosa più odiosa del mondo.
Ho tanti ricordi della mia prima casa, dei flash che tornano in sogno o mi arrivano davanti se le mani toccano qualcosa di simile alla moquette, se sento l'odore del fiore di magnolia o mi trovo di fronte ad una vasca d'acqua, ricoperta di muschio e capelvenere, piena di conchiglie e pesci rossi...come quelli quassù.


martedì 16 ottobre 2012

Ombre lunghe/Io, Robot

Sono stata a lungo indecisa sul titolo da dare a questo post, alla fine non ho scelto.
Gli argomenti che mi frullano per la testa sono due e sono opposti. Stare e andarsene.
Stare significa vedere cose meravigliose, godere di un'atmosfera conosciuta e rassicurante, annusare l'aria, sedere nel mio giardino incantato e vivere nella luce. Andare significa mettere in moto la vita, inciampare, provare, superare ostacoli e raggiungere obiettivi.
Entrambi gli aspetti mi appartengono più che mai in questo periodo, penso però che sia bene iniziare dall'oggi, dopo tanti anni di yoga credo sia importante cominciare dal "qui e ora".
Oggi, ultima giornata stancante ma non di pieno delirio come saranno le prossime, ho ancora avuto il tempo per correre e godere del mio posto.
Con il sole alle spalle avevo l'ombra lunga. Stringendo l'elastico della coda di cavallo, sistemando le cuffiette nelle orecchie, partendo con la prima ampia falcata (per quanto possa essere ampia una mia falcata), ho cominciato a muovermi con la radio che passava Bette Davis Eyes. Non poteva capitarmi di meglio.
L'ho cantata tutta ed è rimasta con me, guardando i gabbiani posarsi sull'acqua, il fotografo accucciato sulla battigia preparare il cavalletto e l'edera verdissima arrampicarsi sulle palme. Al giro sullo sterrato ho abbassato la lampo della giacca e ho aumentato il passo, il sole in faccia e i pescatori controluce, come quei giochi da Settimana Enigmistica in cui bisogna riconoscere la silouette giusta tra dieci forme tutte diverse ma quasi identiche e nere. La luce forte, il mare invernale, la casa nuova che mi aspetta. Settimane in arrivo che prevedono ore belle con lo Sminatore, ore di analisi al museo, ore di attesa per l'arrivo di mobili e operai, ore di turni al circolo, ore di interpretazione risultati, ore di redazione report, ore di esami, ma, soprattutto, ore di Festival.
Io, Robot e dal "qui e ora" si passa diretti al futuro. Un laboratorio che ancora non so, che ho assaggiato appena, ma che sicuramente, come ogni anno, sarà stimolo, emozione, commozione, paura, preoccupazione, stanchezza, dannazione, soddisfazione, tristezza e mille altre cose insieme. Un laboratorio che sta nella foto quassù e che magari mi divertirà.
Un dopo e un pre in un durante, come domenica alla Festa della Zucca, dove Vesima ha accolto il mio futuro, gli amici che vivranno attorno a me e che hanno conosciuto il mio posto proprio poco prima che lo lasciassi.
Ora, mentre scrivo queste righe, tra un borsone per dormire sul divano e un pensiero a chi mi è vicino sempre, ho trovato un elenco, uno dei miei tanti elenchi, scritto la primavera scorsa per andare dal neurologo, in un periodo in cui il futuro, questo futuro, era ancora così lontano e spaventoso.
L'elenco, a caratteri piccoli sulla vecchia agenda arancione, raggruppa i sintomi che avrei dovuto dire al medico che mi avrebbe visitata quel giorno, per cercare di capire un po' che cosa stesse succedendo al mio maledetto collo. Adesso che mi sembra passato un secolo, che la paura, lo stordimento e l'incertezza si rifanno sentire solo ogni tanto, quando la schiena si tende e la nuca tira, mescolo il presente con il futuro, le ombre lunghe con i robot.


venerdì 12 ottobre 2012

Il vento fa il suo giro

C'è Tramontana, persa, che uno non capisce cosa voglia dire finché non la vede. La Tramontana persa è luminosa, veloce, piena d'aria, potente e delicata allo stesso tempo. Quando c'è Tramontana persa si perde anche lo sguardo, il mare si accende e sembra che tutti i pesci del mondo salgano in superficie per riflettere la luce con le loro scaglie argentate. La Tramontana persa ci piaceva tantissimo. Andavamo al chiosco, ma anche solo in giardino e la guardavamo insieme. Gli occhi a fessura, la fronte accigliata per difenderci dal riverbero, la tua sigaretta fumata dal vento, il gatto di turno che si rotolava accanto a te, il nostro proverbiale silenzio. Oggi era il tuo compleanno, chissà se sarebbe stato un giorno buono o non avresti messo piede fuori dal letto...
Io dico che avremmo aspettato il ritorno di mamma da scuola, avresti preparato un pesce, un'orata al sale magari e lei avrebbe portato i cavolini.
Invece la Tramontana la sto guardando da sola, il mare è in giardino più che mai, ascolto Blue Leaves di Soley e mi viene un po' da piangere: è strano, non mi succede mai quando ti penso.
Ieri sera ho montato parte dei mobili per la casa, mi ha aiutata lo Sminatore, senza di lui non ce l'avrei mai fatta. Senza di lui sono tante le cose che non riuscirei a fare, almeno così mi sembra. Senza di lui non riuscirei ad ascoltarmi, senza di lui non potrei ascoltarlo e di questo non riesco proprio a pensare di fare a meno.
Fare a meno, che brutte parole. Cosa significano? Fare meno cioè meno cose? Fare delle cose ma con meno gente? Dovrebbe essere vietato, dovrebbe essere impossibile continuare a fare da soli o con altri cose che si facevano con qualcuno che non c'è più. Invece monterò ancora mobili nella vita e magari lo Sminatore sarà altrove, invece continuerò a perdermi da sola nella Tramontana e tu non la starai guardando con me. La cenere non guarda la Tramontana.
La soluzione autoreferenziale a tutto questo, imparare a fare da soli e per se stessi, a godere delle esperienze senza bisogno di condividerle, è ancora troppo lontana da me. Non so nemmeno se vorrei essere così, non so se mi piacerebbe bastarmi, non so se riuscirei a rimanere una persona dolce, piena di carezze nelle dita. Carezze che spesso non lascio andare, "carezze in potenza" pronte a stendersi su una guancia, carezze veloci dietro una nuca di velluto, carezze lente intorno a un occhio, un naso, una bocca. Carezze in mezzo a una schiena sudata, carezze piccole su un mento che sorride. Carezze che mi avvicinano al mondo anche se restano con me, carezze che non ho preso da te e dal tuo pessimo carattere. Carezze che forse mi ha passato mamma con le mille che mi ha dato da bambina o carezze che sono nate insieme a me, insieme ai miei capelli arruffati, ai miei occhi strani e alle mie mani piccole. Una carezza è per te papà, buon compleanno.

http://www.youtube.com/watch?v=9EcHYB_hr_4&feature=related

martedì 2 ottobre 2012

Stop me if you think you've heard this one before

In questi giorni ho conosciuto una ragazza, di quelle persone che ti sembra di aver visto mille volte ma che non riesci a ricordare dove vi siete incrociate.
Penso abbia più o meno la mia età, sembra sempre assorta in chissà quale pensiero ma in realtà credo che viva semplicemente in maniera molto rilassata, cosa che per me è quasi impossibile.
Mi sono sorpresa a invidiarla l'altra sera al Circolo, mentre cercava un accendino per illuminare la stanza di sopra: tenendo il lumino con due dita, il pollice e l'indice, attaccava la fiamma allo stoppino e poi passava al successivo, con calma e concentrazione. L'ho incontrata anche ieri sera al ristorante jap, ero con la Betta e il vicino-vicino, ci siamo solo scambiate un'occhiata, di quelle tra amiche che si conoscono da una vita. Ha ordinato un sashimi di salmone e l'ha mangiato tutto, lentamente, con gusto, tenendo i pezzi di pesce con le due bacchette, chiacchierando con i suoi amici, intingendo la carne nel wasabi e portandosela alla bocca senza pensare a niente, almeno così pareva a me.
Ho deciso di invitarla in palestra, mi è sembrata una persona adatta a praticare una disciplina come il pilates, dove la dilatazione del tempo, l'allungamento muscolare, la concentrazione sul respiro e sui propri muscoli sono le componenti principali.
Così questa mattina ci siamo date appuntamento davanti all'ingresso, un paio di parole veloci e via con la lezione. Sembrava aspettare questa ora da una vita, si muoveva con criterio, senza esagerare, si vedeva che qualcosa nella zona del collo le dava fastidio, sbagliava certi esercizi più che altro per la paura di farsi male, tendeva le gambe fino a sentirle una cosa distinta dal busto e da se stessa.
Finito l'allenamento mi ha salutata velocemente ed è corsa via a piedi, non so dove abiti ma la immagino percorrere la stessa strada che faccio io di solito quando torno a casa correndo. Penso però che lei veda le cose diversamente, che sappia vedere il buono che già esiste, che riesca per esempio a notare i ciuffi d'erba nati sul bordo del marciapiede grazie alle piogge di questi giorni, che osservi tra una falcata e l'altra le campane viola del rampicante a picco sul mare, che questa mattina erano anche ricoperte di pioggia e facevano tremare il cuore, che annusi l'aria salmastra e si faccia venire la pelle d'oca passando all'ombra del campeggio e che svoltando dalla curva, con il sole in faccia, canti a squarciagola gli Smiths che passano alla radio: Stop me oh oh oh Stop me, Stop me if you think you've heard this one before...

giovedì 27 settembre 2012

Fingers and love

Chissà se il matrimoio di Cecilia smetterà mai di essere ispirazione per il mio blog...
Questo post è di nuovo collegato alla meravigliosa festa della settimana scorsa, stavolta però il tema principale sarà il fai da te.
E' passato parecchio tempo dall'ultimo guizzo di creatività descritto qui, forse il mio compleanno era stata l'ultima occasione (http://ilmareingiardino.blogspot.it/2012/01/feltro-mon-amour.html)
Come al solito, il filo conduttore delle mie botte artistiche è il recupero dei materiali, l'uso "diverso" delle cose, la rinascita di oggetti, stoffe, pezzi di carta che andrebbero altrimenti perduti (http://ilmareingiardino.blogspot.it/2010/01/segnaposti-personalizzati-con-materiali.html).
La natura e i colori vincono sempre, anche in questo caso: la foto ben rappresenta quello che normalmente mi frulla per la testa quando si tratta di creare qualcosa, un albero, dei pennelli, della carta da pacchi e il fondamentale aiuto dei più piccoli.
L'idea è nata cercando in rete qualche ispirazione per gli addobbi della festa, in un sito specializzato in creazioni per matrimoni e ricorrenze con molti invitati ho trovato qualcosa di simile al mio albero. Usando i colori a dita le persone presenti all'evento possono lasciare un segno del loro passaggio, una vera e propria impronta digitale che ricorderà sempre ai festeggiati chi si è unito alla loro gioia.
Visto che al matrimonio era prevista la presenza di tanti bimbi, ho pensato che disegnare un albero e un prato, due simboli facili e molto affini al posto in cui Cecilia e Gabriele hanno scelto di riunire gli amici, potesse essere un buon modo per coinvolgere anche i più piccoli nell'allestimento.
Ma non credevo di riuscire così tanto nel mio intento.
Innanzi tutto perché la sera prima non avevo i colori. Poi, cercando in vecchie scatole polverose ho recuperato un indelebile nero e degli acquerelli mezzi secchi. La carta da pacchi mi è stata di aiuto, per le sue capacità di assorbenza e "cammuffamento" errori/difetti. Un piccolo foglio in linea con gli altri sparsi qui e là alla festa spiegava come fare, il resto è opera dei bambini: foglie, petali, frutti, gocce fluo hanno ricoperto i rami e i fili d'erba, hanno decorato il tronco e riempito il cielo. L'effetto finale, almeno secondo me, è bellissimo. E tanto commovente (ma su questo non faccio testo, piango per molto meno!).

Cosa serve?
- Un foglio carta (normale, da pacchi, riciclata...)
- Dei colori per la sagoma (vanno bene tutti, nel mio caso ho usato pennarello e acquerelli). Per la scelta della forma io ho optato istintivamente per un albero, ma è molto carino anche il mazzo di palloncini, per esempio.
- Dei colori a dita

E' molto facile, più di quanto si immagini, anche perché il vero lavoro creativo, come sempre, lo fanno i bambini.


P.S. Per la foto, grazie a Balletti!

lunedì 24 settembre 2012

Ho imparato a sognare

Non so da che parte cominciare.
Inizio magari spiegando il titolo: un pezzo di canzone dei Negrita che a Cecilia piace tanto. Chi è Cecilia? Cecilia è una mia amica, che si è sposata sabato, con Gabriele.
Oggi scrivo del loro matrimonio, con la gioia vera nel cuore.
Una giornata di festa, una sfida, un gruppo di persone, una famiglia-tribù.
A me piacciono gli elenchi, chi mi legge lo sa, perciò anche stavolta (come credo in ogni post pubblicato quaggiù) tante parole in fila mi aiuteranno a raccontare il week end appena trascorso.
Intanto circolo, come circolo ARCI che è quello che siamo per gli altri, ma anche come circolo di amici, che è quello che siamo per noi.
Gli sposi ci hanno chiesto, pochi mesi fa, di occuparci del loro pranzo di nozze, che più che un pranzo è stato una festa, una grande abbuffata con musica, giochi, balli, fotografie, filmati e amore.
Io, Elli, Silvia, K e KK abbiamo iniziato a cucinare venerdì mattina al Belleville e finito sabato durante il buffet: è stato faticoso e divertente, impegnativo e stimolante, lungo e veloce al medesimo tempo.
Torte di zucca, di bietole, di cipolle e di riso, lasagne al pesto, farinata, roast beef, salumi, porchetta, carne cruda, formaggi, caprese, pasta con salsiccia e funghi, salmone al forno...tutto innaffiato da vino abbondante e servito con un misto di apprensione, gioia e soddisfazione.
Non siamo cuochi, siamo forse (il forse è per me, per gli altri è certezza!) portati per la cucina, ma quello che sicuro non ci manca è la voglia di provarci.
Cecilia qualche settimana addietro mi aveva chiesto di trovare per lei delle frasi che sapessero di sole, campagna, amicizia e amore, mi ha domandato di scriverle e distribuirle qua e là il giorno del suo sì, cosicché gli invitati alla festa potessero leggerle, portarle a casa o lasciare a loro volta un pensiero, con l'aiuto dei tanti pennarelli colorati usati come centri tavola insieme a lanterne di carta e gerbere lunghe.
Fare questo "lavoro" per la sposa mi ha permesso di guardarmi dentro, di cercare, innanzi tutto nella memoria, qualcosa che mi facesse tornare alla felicità di un giorno grande come quello di ieri, senza retorica e con una buona dose si sincero sentimento. Poi, scrivere su pezzi di carta straccia con un pennarello bianco, appendere i fogli su spago da cucina, usare piccole mollette colorate e cercare quelle di legno per il bucato quando le prime terminavano, è stato un gioco da ragazzi!
L'effetto, già romantico quando le pagine giacevano ancora a casa mia (vedi foto), sul posto era ancora più bello, tra il verde dei prati, l'arancio dei muri, le risate della gente. Quindi, un'altra parola di questo elenco sarà, appunto, parole. Come quelle scritte sulla carta e quelle dette dagli sposi durante il taglio della torta: parole di ringraziamento, elenchi di nomi, racconti di viaggio, tutto davanti alle centinaia di frutti di bosco adagiati dalla Fra sulla crema pasticcera della torta di nozze più bella del mondo, mentre il vicino-vicino scattava milioni di foto. Accanto ai flute c'erano angurie decorate con un piccolo coltello e un'enorme pazienza, spiedini di ananas, grappoli d'uva, fragole pucciate nella cioccolata, ciotole di mescolanza e confetti bianchi e verdi. Nell'angolo del gioco, dedicato ai più piccoli (tanti!) invitati alla festa, il mio albero disegnato ad acquerello è stato ricoperto di foglie coloratissime da piccole mani intinte nei colori a dita e chissà che Cecilia e Gabriele non decideranno di appenderlo a casa loro...
Questo post rischia di diventare lunghissimo, ma non posso non parlare dei fiori, dal bouquet di tulipani arancioni, ai crochi viola che spuntavano ovunque tra l'erba chiara, dall'erica bianca a quella rosa, dalle primule gialle alle gerbere di tre colori, dai fiori di vetro bianchi ai ranuncolini selvatici così delicati...Un posto magnifico, pieno di pace, di animali, di dolcezza. Un gruppo di amici, come scrivevo all'inizio, che non hanno mai perso la calma, che si sono divertiti, che hanno gioito con gli sposi, che hanno mangiato e bevuto, parlato in genovese, imprecato contro gli asini e il loro verso, prestato coperte, fatto battute, parlato seriamente, raccontato viaggi recenti, immaginato futuri possibili.
Non resta che augurare agli sposi di incontrare spesso sulla loro strada emozioni così belle, di avere sempre il calore degli amici attorno alle loro vite, di continuare a crescere come persone singole, ma trovando rifugio nell'abbraccio della parola due.

domenica 23 settembre 2012

L'odio

Qualche tempo fa scrissi un post, anzi un elenco, di cose per me incredibilmente forti ed estremamente vicine. Sento ora il bisogno di buttare giù tutto quello che non mi piace, "che odio", senza usare un criterio o spiegare il perché.
Cucire i bottoni, i fiori dell'amaranto, il caviale, i colori fluo, l'anice, il suono delle ambulanze, le scarpe da ginnastica con la zeppa o il tacco, gli schiaffi in faccia, togliere i capelli dallo scarico, l'azzurro con l'arancio, le ostriche, i ragni, i posti stretti, le sorprese, i giudizi, andare in piscina, il telefono che squilla di notte, i consigli non richiesti, le pubbliche umiliazioni, l'heavy metal, i fiori finti, i libri sottolineati con l'evidenziatore, le agende con poco spazio per scrivere, le competizioni, sbrogliare collanine annodate, la gente che alza la voce, prendere grosse decisioni, arrivare in ritardo, la birra calda, il caffè d'orzo, i parchi giochi, i biscotti nel latte, andare dal dentista, i film dei Vanzina, i piedi con le unghie lunghe, il verso dei pappagalli, la prepotenza, gli abbandoni, i barboncini giganti, i SUV, mangiare al McDonalds, fare telefonate difficili, le bibite energetiche, andare in bicicletta, l'odore dei cipressi, il rumore del gesso sulla lavagna, mangiare con le posate di legno, litigare, fare il bagno in mare di notte, il fondotinta scuro, il vino che sa di tappo, la pizza con le verdure sotto aceto, l'arrivismo, il Neoclassico, l'intimo scuro sotto i pantaloni bianchi, l'odore dell'ammoniaca, l'acqua solforosa, lo sciroppo per lo stomaco, le mancanze di rispetto, l'arroganza, i tuoni forti, i botti di Capodanno, la cattiveria, i vespasiani, l'ipocrisia, l'ingratitudine, l'odore dei freni del treno, il purea freddo, i tatuaggi tribali, le maglie in tessuto sintetico...
Considerazione: probabilmente c'è molto altro, ma non mi viene...è stato molto più facile scrivere ciò che amo, o oggi sono particolarmente ben disposta oppure semplicemente fortunata!
(la "bendisposizione" la spiegherà il prossimo post)

lunedì 17 settembre 2012

Ecco

Ho un onore e un peso. L'onore di essere stata scelta dalla sposa per cercare tra le parole del mondo qualcosa di "giusto" per il suo giorno. Il peso di una notizia, lontana in verità, che non mi abbandona più. Questioni di vita.
E stasera, mentre leggo frasi, ritaglio pensieri, spulcio racconti, scorro favole, mangio storie, mi imbatto in questa poetessa, che sa sempre cosa dire e cosa dirmi.

La vita – è il solo modo
per coprirsi di foglie,
prendere fiato sulla sabbia,
sollevarsi sulle ali;
essere un cane,
o carezzarlo sul suo pelo caldo;
distinguere il dolore
da tutto ciò che dolore non è;
stare dentro gli eventi,
dileguarsi nelle vedute,
cercare il più piccolo errore.
Un’occasione eccezionale
per ricordare per un attimo
di che si è parlato
a luce spenta;
e almeno per una volta
inciampare in una pietra,
bagnarsi in qualche pioggia,
perdere le chiavi tra l’erba;
e seguire con gli occhi una scintilla di vento;
e persistere nel non sapere
qualcosa d’importante.


(Wisława Szymborska)


Ecco la vita, ecco cosa è per me. Anche se a volte me lo dimentico.
Della stessa autrice, qui in giardino c'è: http://ilmareingiardino.blogspot.it/2012/02/un-febbraio.html

sabato 8 settembre 2012

Evocator

E' sabato sera, sono appena tornata da un matrimonio, ho ancora le unghie laccate di rosso, ma è tutto ciò che resta (a parte quei 15 chili in più che si posizioneranno sapientemente sul girovita).
Voglio scrivere questo post da qualche giorno, ma dovrei fare mille altre cose più urgenti: preparare un esame per esempio, riflettere sul preventivo dell'elettricista, cercare suggestioni per lafestadellefeste.
Però ora sono stanca, ho la pancia piena, fa caldo e ho voglia di musica, libro e lenzuola fresche. Quindi, scrivo questo e poi bon.
La settimana appena trascorsa è stata insolita: sono tornata a scuola.
Da lunedì a mercoledì ho seguito la Scuola di Robotica & Design, un'idea nata questa estate e concretizzata quasi senza accorgermene. Una bella idea però.
Con in ballo una possibile collaborazione futura mi sono buttata in questa avventura senza sapere nulla di robot, elettronica, informatica, tecnologie varie ed eventuali. Non ho il mac, non ho uno smartphone, non parlatemi di iphone, ipad, ipod, tablet, ebook e similari perché non so dire nulla e capisco ancora meno. Ma questa settimana mi sono divertita e, per la miliardesima volta negli ultimi tre anni, ho messo alla prova un pezzo di me. Educatore ambientale, animatore scientifico, barista, cameriera, aiutocuoca, imprenditrice, studentessa, giornalista, roba che alla fine non so più nemmeno chi sono, cosa mi piace davvero, dove riesco meglio, quanto posso reggere.
Ma sono fatta così, mille porte aperte, duemila ansie, tremila crisi esistenziali e tanta tanta pazienza. Innanzi tutto sono paziente con me, poi pure con gli altri non scherzo.
Comunque, bello il corso, belli i compagni, bella l'organizzazione, bravi i docenti, buono (e tanto!) il cibo, bella l'atmosfera. Primo giorno di scuola: ultima fila. Compagno di banco: il vicino-vicino. Una pacchia.
Abbiamo ascoltato, provato, sentito (cioé accolto sensazioni), riso, imprecato, acceso, spento, schiacciato, bevuto, progettato, parlato, mangiato, guardato, collegato, scritto, disegnato (tanto e compulsivamente, come al solito), riflettuto, immaginato, evocato.
Io ho evocato tantissimo. Il corso ha previsto una parte di lavoro di gruppo, in cui occorreva presentare un'"idea robotica", ovvero organizzare una possibile applicazione tecnologica, non per forza realizzabile adesso, non per forza realizzabile in futuro, ma per forza pensata insieme. Noi abbiamo inventato Evocator (figlio di Navigator, Terminator, Predator, Liquidator e compagnia cantante). Il nostro super sistema è in grado di riprodurre immagini, odori, suoni e pure sensazioni tattili, a comando. Magari mentre si legge un libro (e si vogliono vivere le pagine che ci scorrono tra le dita), magari mentre ci si rilassa in giardino (e l'odore di un fiore ci porta indietro nel tempo), magari mentre si pensa a chi non c'è più (e una musica, un profumo o un oggetto incontrato per caso ci trascinano da lui).
Ovviamente per me è stato inevitabile rotolare giù nella mia vita di prima, un continuo attacca-stacca cavi elettrici, resistenze, led, circuiti che puzzavano, un inconfondibile odore di elettronica sigillato in piccole scatole numerate, un senso di soddisfazione visto mille volte su una faccia che mi somiglia(va) un sacco.
Lo dice anche la foto no? Se si nasce da una persona che riordina(va) così i suoi transistor, come si fa a non divertirsi a un corso di robotica?

domenica 2 settembre 2012

Riposa in pace

Un invito che mi fa sorridere ogni volta e che ha sempre la stessa risposta (Tiè).
Io però in pace non riposo quasi mai. Negli anni, anzi nei decenni, il mio rapporto con il sonno è cambiato tantissimo: da piccola non dormivo e non mangiavo. Una bambina maledetta. Di notte mi alzavo, volevo uscire o giocare e una delle prime parole che dissi fu "chiavi", ovvero "Andiamo?". Poi, quando la mania di non dormire poteva essermi d'aiuto permettendomi di alzarmi presto per andare all'asilo o a scuola, stare a letto cominciò a piacermi. Come avrei preferito rimanere a casa e magari passare la mattina con il gatto a giocare sulla moquette! Invece andavo in classe, disegnavo, scrivevo, mi spingevo con gli altri bimbi, costruivo casette con i lego e fingevo di mangiare l'insalata alla mensa scavando un buco nel panino, inghiottendo la mollica e nascondendo le foglie all'interno.
Il momento peggiore era il pisolino post pranzo, sulle brandine blu accanto al pianoforte. Non volevo starci. Non avevo sonno. Volevo giocare in giardino o andare a casa per mangiare pane burro e zucchero. Guardare le altre facce addormentate, i pollici in bocca, le pipì che colavano giù dai lettini e i pupazzi che cadevano tra la polvere mi faceva sentire a disagio.
Crescendo la pisa pomeridiana è diventata un rifugio irrinunciabile. Andare a letto tardi, stare fino alle due del mattino a guardare Notte Horror con papà, che veniva subito dopo il Festivalbar e che era annunciata in uno spot pubblicitario poco prima di decretare il vincitore, mi piaceva tantissimo. Andavo in bagno a lavarmi, prendevo il gelato nel freezer e mi rannicchiavo sul divano letto, terrorizzata ancora prima che il film iniziasse. Poi papà si addormentava e io non avevo più il coraggio di andare a letto attraversando da sola il salone buio. Così restavo lì.
Il giorno dopo, andare al mare la mattina presto e ingoiare quintali di insalata di riso a pranzo, significava per forza dormire nel primo pomeriggio. Che meraviglia le lenzuola fresche, le voci lontane dei bagnanti, il vento tra le foglie e il rumore ovattato dei piatti in cucina...
Durante gli anni del liceo la sveglia presto, i corsi di recupero alle due e le serata in Via Longo non hanno aiutato la riconciliazione tra me e Morfeo, ma sono stati anni meravigliosi e per dormire ci sarebbe stato tempo dopo.
Il tempo per la nanna è infatti arrivato con l'università, a parte le lezioni di latino alle 8 (siamo pazzi???), gli altri corsi iniziavano tardi e io potevo dormire di più. Al pomeriggio riuscivo persino a fare la pennica al Porto Antico, fingendo di leggere il giornale e lasciando invece cadere in avanti la testa, come i vecchi alla bocciofila. La sera da superfidanzata non terminava mai troppo tardi e quando nel week end ci si concedeva un Old da Wincy c'era sempre il pomeriggio del sabato da trascorrere sul divano a pelle d'orso. Peccato per le difficoltà logistiche di avere un ciclo sonno-veglia opposto al proprio innamorato, lui stramazzava sul tappeto all'inizio della sera e io tentavo di trascinarlo a letto alle tre del mattino, per essere a mia volta svegliata alle 7 con un "Andiamo? è tardi!". Bruttissimi gli anni in cui il sonno era diventato un rifugio, giorno o notte che fosse ero in grado di dormire per ore e ore di fila, senza quasi ricordare i miei sogni, con la voglia di ricominciare a dormire appena aprivo gli occhi. Adesso è la notte il momento peggiore, non faccio mai troppo tardi ma non riesco a garantirmi un sufficiente tempo di sonno, mi sveglio tre o quattro volte e alla mattina è come se mi fossi assopita sul treno. In realtà sui mezzi dormo ancora oggi come un ghiro, rischiando come al solito di perdere la stazione di discesa o di farmi rubare anche le mutande. Il pomeriggio è ormai più facile che vada a camminare piuttosto che a dormire, anche senza caffè tiro lungo fino a sera. Il mio parco sogni, infine, continua ad essere assurdo, variegato, divertente, terrorizzante al limite del trauma mentale, complicato, eccitante e chi più ne ha più ne metta. Per fortuna è molto raro che al mattino non ricordi le mie avventure.
Ora sono quasi le due, sono mediamente lucida e ho voglia di vento, perciò mi berrò 'na tazzulella 'e cafè e andrò a fare due passi. Cià.

giovedì 30 agosto 2012

Coraggiosità

Bibbi è una gatta molto coraggiosa.
Credo abbia quattro anni, anzi forse cinque, quindi è quasi vecchia.
Però resta un animale di carattere: particolare, selvatico, testardo, simpatico...di carattere appunto.
Nel tempo ha acquistato diversi soprannomi, da Agata (A-gatta), a Titti, Bibbi, Pribbi, Pribs, DinDin...soprattutto a quest'ultimo nomigliolo risponde dilingentemente con versi vari ed eventuali, stiramenti, occhi strizzati, sbadigli, spostamenti in diagonale a dir poco ridicoli e completamente disarticolati.
Agata è coraggiosa perché si fa picchiare, non sappiamo per quale nobile causa, se per questioni di territorio, cibo, sesso o semplice stupidità, sta di fatto che molto spesso le prende di santa ragione. Di solito succede durante la notte, mentre dormo. Capita sempre più di frequente che intorno alle quattro io venga svegliata da urla strazianti (emesse soprattutto per scena) che provengono dal giardino. Mi alzo, strascico il passo, mastico qualche insulto, sposto i capelli informi spiaccicati sulla faccia, tolgo il ferro morto, apro porta e zanzariera e la trovo lì: una specie di orribile scoiattolo spelato, con gli occhi fuori dalle orbite e la cresta sulla schiena, pronta e schizzare in casa prima ancora che abbia capito cosa stia succedendo. A quel punto mi limito a richiudere tutto, sosta pipì in bagno e letto immediato subito dopo. Nel mentre Bibbi si nutre, ingerisce quantità smodate di crocchette rumorosissime che rimbombano in tutta la casa mentre i denti felini le triturano terrorizzati, per poi vomitare tutto tre secondi dopo. Se sono fortunata la palla di cibo viene riversata in un angolo, a volte addirittura nella cassetta, molto più spesso in mezzo al corridoio. Questo significa sperare ardentemente di non dover di nuovo far pipì prima della mattina, o per lo meno di accendere la luce per andarci, altrimenti, CHE SCHIFO.
Il giorno dopo le aggressioni Agata di solito sta chiusa in casa, dorme su una seggiola o sotto un mobile, in fondo ad un armadio o tra le lenzuola. Passa così mezzo pomeriggio e poi si decide a riaffrontare il crudele mondo fuori, pronto ad ammazzarla per un topolino. Pochi minuti fa l'ho lasciata uscire, dopo venti ore di riposo post pestaggio: probabilmente ieri se l'è vista brutta a causa di un tasso (animale molto comune qui), data la quantità di pelo secco e scuro che aveva sotto le unghie, il grado di sconvoltezza che l'ha accompagnata tutto il giorno e la puzza di bestia selvatica che la ricopre uniformemente da ventiquattrore.
Io penso, mentre scrivo e aspetto che la camomilla si freddi un poco, che ammiro molto la mia piccola gattina, brutta da far paura, scambiata quasi sempre per un animale randagio, selvatica più di una faina, con un occhio piccolo e uno normale, con la coda storta e il naso nero, con il pelo di una pecora e la voce assente, che nonostante tutto affronta il mondo ogni giorno come se fosse la prima volta. Si affeziona ma non troppo, si butta anche se ha paura, si allontana ma poi torna sempre, si fa coccolare anche se con un orecchio sempre teso...da qualcuno avrà preso, no?

sabato 25 agosto 2012

Chi di verde si veste di sua beltà si fida

Ieri dopo il lavoro sono andata all'Albero della Coccagna, per vedere la mia nuova parete verde. E' bellissima. Mi ha raggiunta anche il vicino-vicino che ha concordato con me sulla bellezza del colore e sull'ottima idea di incorniciare la tinta con un bordo bianco, in questo modo la stanza sembra più profonda e si sfrutta l'effetto scenografia teatrale. Sono contenta anche del grande arco tra soggiorno e cucina, sembra fatto apposta per aiutare la luce a circolare e con lei la musica, i pensieri e le chiacchiere degli amici che inviterò a cena. Loro potranno starsene spaparanzati sul mio divano o sul tappeto parlando con me che traffico ai fornelli, io riuscirò a guardare in faccia gli ospiti e magari a posare un piatto di assaggi sul muretto di ardesia che ci separa.
Credo che a ottobre sarà tutto pronto, comprerò le cose indispensabili per prendere la residenza, trasporterò i vecchi mobili che sono qui a casa dei miei, metterò la mia vita nelle scatole e comincerò a vivere nella nuova tana.
Una cosa che vorrei tanto è che ci fossi anche tu, anche se non approveresti i lavori come non avresti approvato l'acquisto, che faresti mille storie per aiutarmi a impacchettare i libri e non ti muoveresti mai per venirmi a trovare. Invece mi limito a sognarti come al solito, più vivo che mai, che guardi con me una grossa cassetta di legno in giardino, piena di uova e bambagia. Ci sono uova enormi di struzzo che pulsano sotto i nostri palmi, lunghe uova piatte arancioni di qualche raro pesce, uova nere di pipistrello (ma mica fanno le uova loro), uova rosa di gallina, uova piccole bianche di passerotto, riccioli di uova di insetto. Non so come sia finita, non so se si sia schiuso qualcosa oppure no, una porta è sbattuta e mi sono svegliata. So però che ci saremmo presi cura di qualunque animale fosse nato, così come abbiamo sempre fatto con rospi, serpenti, ricci, gatti, uccellini, bruchi, lumache e pesci rossi, proteggendoli da tutto e da tutti, osservandoli adattarsi alla nostra casa, mentre la mamma li guardava con sospetto.
Nella mia nuova tana non ci saranno animali, cercherò di curare piante e comprarmi fiori colorati per rallegrare la cucina, ma non porterò nessuna bestiola a vivere in città. Lascerò Agata qui nel mio giardino incantato e la verrò a trovare ogni volta che potrò, giocherò con i mille cani di Marta e con Il Signor Siberia di Nessie, la notte sognerò i nostri animali e penserò ogni volta a te che giochi con loro mentre il sole tramonta.



mercoledì 22 agosto 2012

Tutto sapendo non sappiamo nulla


Non ho voglia di scrivere nulla.


Uomini


Non esistono al mondo uomini non interessanti.

I loro destini sono come le storie dei pianeti.
Ognuno ha la sua particolarità, non ha un pianeta che gli sia simile.

E se uno viveva inosservato e amava questa sua insignificanza,
proprio per la sua insignificanza egli era interessante tra gli uomini.
Ognuno ha il suo segreto mondo personale.
In quel mondo c'è un attimo felice.

C'é in quel mondo l'ora più orribile,
ma tutto ci resta sconosciuto.

Quando un uomo muore,
muore con lui la sua prima neve,

e il primo bacio e la prima battaglia…
Tutto questo egli porta con sé.

Rimangono certo i libri, i ponti,
le macchine,le tele dei pittori.

Certo, molto è destinato a restare,
eppur qualcosa sempre se ne va.

É la legge di un gioco spietato.
Non sono uomini che muoiono, ma mondi.

Ricordiamo gli uomini, terrestri e peccatori,
ma che sapevamo in fondo di loro
Che sappiamo dei fratelli nostri, degli amici?
Di colei che sola ci appartiene?

E del nostro stesso padre
tutto sapendo non sappiamo nulla.
Gli uomini se ne vanno…
e non tornano piú

Non risorgono i loro mondi segreti.

E ogni volta vorrei gridare ancora
contro questo irrevocabile destino.

E. Evtushenko

lunedì 20 agosto 2012

Fichi neri a colazione

E' mattina e ho pochissimo tempo per questo post.
Tra quindici minuti devo entrare al lavoro, cinque ore oggi, spero. Poi di corsa all'Albero della Coccagna a vedere come vanno i lavori e poi di nuovo a casa per cercare di dormire. Ho fatto colazione con i fichi neri e pensato a mio padre tutto il tempo. Immaginavo che questo lunedì non sarebbe stato semplice, un po' per il mal di testa incessante da giorni, un po' per il fine settimana impegnativo appena trascorso, un po' per i giorni di lavoro-scrittura articolo-lavoro-scrittura articolo-ufficio-lavoro-scrittura articolo che mi si prospettano. Non ci sono isole felici, nè tra poco nè tra tanto tempo. Mi sento circondata da persone che non capisco, che detengono o pretendono di detenere diritti sulle scelte altrui (le mie per esempio) che nemmeno mia madre si permette di accampare.
Non ho tempo per scrivere il blog perché la mia concentrazione è assorbita dalla consegna del pezzo per l'editore, non ho tempo di pensare a me perché gli altri vengono prima. L'unica cosa che mi riesce sempre bene è essere felice per la gioia di chi amo, è scorgere la contentezza negli occhi tagliati con l'ascia per una nuova partenza piena di emozioni, è prendermi le mie responsabilità e chiudermi in un locale in pieno agosto, con un caldo micidiale, per accontentare tutti e guadagnare qualcosa che mi eviti il peso totale sulle finanze di mamma.
Io però dove sono?
Per fortuna mi restano i fichi neri a colazione.

sabato 11 agosto 2012

Un senso

Sono successe tante cose sensate. Che hanno cioè dato un senso a questo periodo, a questo momento della mia vita in cui facevo un po' fatica a capire cosa dovessi fare per muovere le acque e sentirmi meno zombie. Non ho fatto nulla e tutto si è mosso da solo.
Una mail inaspettata ha girato in positivo la mia giornata di giovedì, alle 8.00 ero già così eccitata che mi sono scordata di fare colazione e quando è arrivata la Ale avevo così tante cose da condividere con lei che la fame non si è fatta più sentire fino a metà mattinata. Siamo andate alle Terme (il mio regalo di compleanno per la mia migliore amica), io sapevo dai racconti di mamma che era un posto pieno di sorprese, ma non credevo così tanto. Immersa nell'acqua della vasca a 35 gradi, piena di bolle che mi stimolavano le piante dei piedi, mi rovistavano la pancia, mi gonfiavano il costume, mi spianavano la schiena e mi massaggiavano il collo, ho pensato che in fondo siamo così simili agli ippopotami, a mollo nei fiumi quando fuori fa troppo caldo, vicini ai propri simili ma quasi ignorando la loro presenza. Alle Terme ho anche pensato al primo romanzo di Gramellini, quello che anni fa mi regalò lo Sminatore, ma ho fatto fatica a ricordarne i passaggi. Ho pensato anche alla Divina Commedia mentre entravo nella stanza del vapore a 50 gradi e poi passavo in quella fresca dell'aerosol termale. Ho trascorso un giorno intero come in una bolla, come in quei sogni così particolari che ti accorgi di essere addormentata proprio a causa dell'assurda atmosfera in cui ti trovi. Ho chiacchierato con Ale camminando in fiumi freddi e in fiumi tiepidi, spalmandoci olio di jojoba sdraiate al sole, mangiando l'insalata di pasta che avevo preparato la sera prima all'ombra di un gazebo. Ho dormito rannicchiata su un divano mentre Ale leggeva il suo libro sui Mori, sono rientrata in vasca, andata alla ricerca di una tisana e verso sera ho permesso che mi facessero il primo massaggio della mia vita. Relax naturalmente. Riposata, distesa, con i capelli a boccoli e il sorriso tranquillo sono tornata a casa e sono scesa al ristorante sulla spiaggia per cenare con mamma. Lì ho trovato lavoro: per tutto il mese di agosto darò una mano al bar e in sala, racimolando i soldi per comprarmi il frigorifero e forse pure qualcosa di più. Nel frattempo il primo articolo che scrissi per la rivista al momento dell'assunzione è stato pubblicato ed uscirà tra qualche giorno, uno è già di là sulla mia scrivania, uno è in stampa proprio in queste ore e uno mi è stato commissionato ieri mattina. Avrò poco tempo per prepararlo dato l'impegno nel locale, ma incastrerò come al solito tutti i pezzi e ricomincerò a costruire cose per me, compreso ritagliarmi lo spazio necessario per una nuotata o per una camminata a picco sul mare, almeno quando le mie gambe saranno un po' più allenate a trascorrere otto ore dietro al bancone di un bar.
Immagino che tra un po' dovrò anche pensare di fare un salto dal parrucchiere per gestire i serpentelli che si annidano nella mia testa e che in settimana dovrò trovare il modo di seguire i muratori che iniziano i lavori nell'Albero della Coccagna.
Tre giorni e mille cose, tre giorni e una sensazione di senso.