sabato 26 marzo 2016

Cronache Pasquali


Una settimana da incubo che sta finendo, tanta voglia di scrivere un post facile, senza troppi pesi e fatiche, senza troppa attenzione a forma e contenuti, pieno di bellezza o, banalmente, di semplicità.
Il modo migliore, in questi casi, è sempre l'elenco.
Per non fare torto a niente e a nessuno, scriverò la mia lista di esperienze settimanali in rigoroso ordine di comparsa, esattamente così come le cose mi sono capitate.

1. Ho organizzato la tradizionale festa di Primavera sull'Albero. Mi sono divertita, ho cucinato, ho comprato un mazzo di tulipani arancioni e ho giocato con i piccoli nuovi arrivati del gruppo.

2. Ho fatto lezione alla mia mini classe universitaria camminando tra le tombe di Staglieno, spiegando la differenza tra una crosta nera e una patina algale, mostrando i danni del tempo su una statua di marmo esposta alla pioggia, allenando gli occhi di queste ragazze a guardare il contesto. Perché è sempre il contesto che decide le regole.

3. Dopo una notizia che mi ha gettata nel panico ho corso. Ho corso un sacco anche facendo le scalette del parco, ho corso sulle spirali disegnate per terra, ho corso davanti al mare, ho corso tra file di camelie striate.

4. In una mattina difficile ho ricevuto un regalo arrivato con il postino (il genere di regali che preferisco). Questa piccola spilla e la lettera che l'accompagnava sono state un raggio di sole, una coincidenza inaspettata, un momento di speranza che mi serviva moltissimo.

5. Ho accompagnato mamma a fare una visita medica importante, che ci ha tolto un dubbio terribile, così terribile che devo riprendermi ancora adesso.

6. Mi sono comprata una gonna pantalone nel mio negozio vintage del cuore, perché di gonne pantalone, specie se lunghe, ariose, di colori pastello, non se ne hanno mai abbastanza [e poi con i miei Pescura Corallo è perfetta!]

7. Ho mangiato dei pizzoccheri al pesto siciliano, ma anche dello stoccafisso accomodato, ho bevuto vino bianco, vino rosso e persino coca cola.

8. Ho visto un meraviglioso film al cinema e mi ci voleva, le ultime volte ero rimasta così delusa...

9. Ho fatto una gita bella, nei posti dove sono cresciuta dai dodici anni in poi e nei posti dove invece sono nata e ho trascorso la mia infanzia. Non sapevo come avrei reagito nel rivedere la magnolia con le foglie lucide, i leoni di marmo che ho cavalcato così tante volte, le due palme che non c'entravano proprio nulla, il sentiero accanto al fiume. [per inciso, credo di aver reagito bene]

12. Ho mangiato la focaccia con le cipolle sulla spiaggia.

10. Ho visto un capriolo col culo bianco.

11. Sono andata a trovare mio padre.

12. Ho guardato il mare diventare accecante sotto al sole della sera.

13. Ho scoperto Agata arrotolata dentro al piumone di mamma.

14. Ho ritrovato i miei amati boccoli, persi chissà quando e chissà dove.

15. Ho raccolto tutti i pensieri più belli e li ho stretti a me.

sabato 19 marzo 2016

Sassi


Sì, oggi è la festa del papà.
Sì, il mio è morto.
No, non scriverò nulla in proposito.

Ho fatto una gita. Primo evidente segno la camminata: sono rigida. Polpacci, ginocchia, caviglie poco collaborative questa sera.
Secondo segno più evidente del primo: il colorito non più cadaverico, anzi, inaspettatamente salutare. Siamo a Marzo inoltrato, domani inizia la Primavera, e ci si abbronza.
Terzo segno evidente solo a me che lo vivo in prima persona (e a voi che leggete qui): cena inventata, consumata tra cucina-letto-divano, con tonno, legumi, cioccolata, pane e vino rosso. Sono stanca, fingo (nemmeno troppo) di lavorare e penso. Penso che se non ci fosse stato un contrattempo non saremmo tornati in treno (mollando il motorino in stazione). Penso che se mi fossi fermata di più nel panificio, o dal verduraio, o che ne so, sarei rimasta sotto una marea di sassi.

Ho scelto di tornare a camminare, almeno per un giorno, dove l'ho sempre fatto.
Forse non avrei dovuto.
Ho cercato senza trovarlo il pezzo di Sliding Doors, il film, quello in cui per una metro persa (o presa) cambiano un sacco di cose.
Stamattina non si è trattato, per fortuna, del tempo di una metro, ma un'oretta scarsa ha cambiato molte cose lo stesso.
La gita è stata bella, senza vista, con un sacco di nebbia, con mia mamma che chiamava, a sua volta in gita fuori regione, per sapere se ero io una delle due persone rimaste sotto la frana.
I miei posti non mi hanno accolta: solo nebbia, tanta, un po' di vento, ma insufficiente per allontanare il mal tempo, un percorso che le caviglie non sanno fare più. Troppe pietre, troppi dislivelli, poche super salite, poche super discese. Ora mi trascino, forse ho pure un po' di febbre.
Non è certo una spugna gettata questa, ci tornerò e andrò a trovare mio padre come avrei voluto fare oggi, prima che chiudessero l'unica possibilità che avevo di raggiungere il cimitero.

Un paesaggio brullo, con tanti sassi, con i pini storti, i cespugli violentati dal vento, i sentieri erosi e spesso mangiati dall'acqua. Qualche riparo, l'abbaiare di un capriolo, una fila di processionarie, un uccellino morto con le formiche nelle orbite vuote. I ginepri con le bacche, le euforbie stentate, due pallini rossi, un orizzonte che non c'è.
Ma, nonostante tutto, io sono a casa qui, dove ogni angolo mi somiglia, nella sua scontrosità apparente, nel modo schivo di presentarsi, nella calma di un prato silenzioso, perché non c'è nulla da dire.
Sono del Ponente e non posso farci niente.
La rima, lo giuro, non era voluta.

P.S. Nella foto una viola, simbolo universale di resilienza, visto il suo crescere imperterrita in mezzo ai sassi.

domenica 13 marzo 2016

Lo zio Davide

Mia mamma è una matematica e ha sempre sostenuto di non saper scrivere bene.
Tutte balle.
Per dimostrarlo oggi ospito un suo racconto, storia vera verissima che mi hanno sempre raccontato e che ora serve come esercizio di lettura per un gruppo di ragazzi stranieri a cui mamma insegna gratuitamente la nostra lingua due volte a settimana.
Se questo post non vi avesse convinto a sufficienza circa la stranezza della mia famiglia, ecco chi era lo zio Davide, o meglio U Davìdde.

"Il mio bisnonno materno Giacomo, già vedovo con due bambini piccoli, sposò la mia bisnonna Benedetta (Bedìn) nel 1880 (circa) ed ebbe undici figli. Erano due mezzadri poverissimi, coltivavano una terra arida e magra, posta a 300 metri dal livello del mare, e allevavano un paio di mucche, qualche ovino e alcune galline.
L'erba per gli animali veniva falciata in alto, sui monti dell'Appennino, distanti chilometri dalla loro casa, e trasportata a spalle nel fienile, ogni sera.
Nelle fasce strette e scoscese, tipiche di questa valle ligure, tanto bella quanto faticosa, i buoi e l'aratro erano inutilizzabili, solo vanghe, zappe e fatica disumana.
La bisnonna lavorava nei campi dall'alba al tramonto, tornava a casa solo per pranzare e allattare l'ultimo nato. Sempre. Ovviamente neppure le gravidanze le regalavano un po' di riposo: quando lei spariva per qualche giorno, i contadini dei poderi vicini capivano che aveva partorito.
Le bambine dovevano badare ai fratellini più piccoli e cucinare per tutta la famiglia. I maschietti seguivano ben presto i genitori nei campi.
Per inciso dico che la maggior parte di loro restò quasi analfabeta e che le fabbriche metalmeccaniche e tessili della zona assumevano chiunque avesse compiuto nove anni.
Uno degli ultimi nati si chiamava Davide (U Davìdde), era bello, sano, robusto, però...
Quando la sua mamma arrivava di corsa ad allattarlo non lo trovava affamato e impaziente, come era sempre accaduto con i figli precedenti. Lei lo attaccava al seno e lui mangiava con calma e lentezza, le risparmiava quella avidità disperata che aveva conosciuto negli altri suoi neonati e che tanto l'aveva addolorata. La stanchezza e la fame della bisnonna erano enormi e costanti, il suo latte era magro e scarso, eppure Davide cresceva tranquillo e forte. Inutile dunque farsi troppe domande, Benedetta rompeva terra e schiena col cuore più leggero, la figlia Caterina (Cateinìn) curava il piccolo senza paura e anche lei cresceva bellissima, contagiata da tanta serenità.
Quando Davide era ormai un adolescente alto due metri e dotato di una forza leggendaria, Caterina confessò alla mamma di aver avuto un aiutino segreto. Appena nato, ogni giorno Davide, poco dopo che la mamma, credendolo sazio, aveva raggiunto i campi, cominciava a urlare e Caterina tentava inutilmente di calmarlo. Non c'erano ninne nanne né abbracci che regalassero a entrambi una tregua.
Una mattina, disperata, lei decise di attaccarlo alle mammelle di una capretta che pascolava lì vicino. Nei giorni successivi, dapprima scrutò il fratellino preoccupata, temendo malattie e punizioni che non arrivarono mai, poi si fece coraggio e, più volte al giorno, col fagottino in braccio, girò l'angolo della casa e andò nel prato. Ben presto la faccenda si semplificò ulteriormente: appena la capretta sentiva Davide piangere, lasciava la sua erba, correva davanti alla porta di casa e belava finché non poteva entrare, spinta da un commovente, irrefrenabile istinto materno verso quel cucciolo d'uomo di cui fu, per mesi, la balia segreta."

Nella foto quassù la casa dove mia madre e suo fratello gemello sono cresciuti per un (bel) po'. Le altre immagini che mamma mi ha spedito ritraggono lei, una prozia e mia nonna Rosetta, china e sorridente in un campo, mentre raccoglie margherite bellissime. Ecco evidentemente da chi ho preso quando sogno fiori, prati e boschi senza fine.

domenica 6 marzo 2016

Chi va piano va sano e va lontano

Sono una persona costante, credo. Ma parto a rallentatore.

Non nel senso che pondero molto prima di rimboccarmi le maniche, tutt'altro. All'inizio di ogni nuova cosa che mi capita sono frenata soprattutto dal fatto che, fondamentalmente, non ci credo. Non so cosa significhi buttarsi a capofitto. Non dico quasi mai di no alle occasioni che mi si presentano, ma certamente non mi vedrete lanciata nei primi momenti di un progetto.
Che sia questione di sentimenti, affetti, lavoro, passioni, sport: piano piano...forte forte.

Verso i vent'anni mi comprai un libro intitolato La paura degli altri, non nel senso di quello che gli altri temono, ma proprio nel senso di avere paura del prossimo. Ero terrorizzata all'idea di trovarmi al centro dell'attenzione, ero stata una bambina fobica delle recite, delle gare di atletica e di nuoto, degli spettacoli di pattinaggio e danza, delle partite di pallavolo. Comprando quel libro volevo capire cosa succedesse nella mia testa ogni volta che si presentava l'occasione di avere degli occhi puntati addosso. Ricordo che mi servì moltissimo leggere le storie raccontate, le soluzioni, le terapie di tante persone spaventate dal resto del mondo almeno quanto me. Lentamente, ci vollero anni e tantissima pratica, parlare in pubblico divenne più semplice. Non feci entrare nessuno durante la discussione della mia tesi di laurea, né la prima né la seconda volta. Non invitai mai amici e parenti a convegni, seminari, conferenze nei quali era previsto un mio intervento. Non condivisi belle figure, successi, gioie. Ma lavorai duramente e ottenni tanti risultati: ora, per esempio, fare lezione in classe, raccontare il mio lavoro, animare un laboratorio, organizzare attività per il pubblico e con il pubblico, non solo sono lavori che faccio con naturalezza, ma sono anche lavori che mi piacciono moltissimo.

Quando iniziai a scrivere qui sul blog non pensavo assolutamente che sarebbe durato. Aprii la pagina in pochissimo tempo e non smisi più di aggiornarla. Non ho mai creduto di saperlo fare bene, tanto meno ho pensato che le cose che lasciavo tra queste righe potessero interessare o piacere a qualcuno. Ho pochi lettori ma quei pochi mi fanno spesso sapere che le mie parole li colpiscono, li stimolano, addirittura qualcuno ha usato la parola ispirare. Incredibile.

Ho cominciato un corso di fotografia anni fa e non solo l'ho finito, ma mi sono iscritta pure al modulo avanzato, ho comprato una macchina fotografica e ho scattato foto in continuazione, in gita, in viaggio, al lavoro... sempre. Non sono certo una fotografa professionista ma mi piace e, a detta degli altri, a volte mi riesce pure piuttosto bene.

Ho scelto un'università piuttosto facile, era il 2001 e quando si è presentata l'occasione di complicare un po' le cose cambiando indirizzo...beh, l'ho fatto. A ogni esame ero certa che sarebbe andata male, ogni semestre pensavo sarebbe stato l'ultimo e il mio futuro un sonoro fallimento. Invece mi laureai, mi dottorai, ottenni un assegno di ricerca e ora vivrò fino all'autunno grazie a una borsa di studio, poi si vedrà. Certo, nel frattempo ho fatto (e faccio) tutti i lavori possibili e immaginabili per provare a mantenermi, anche cose mooooolto distanti dal mio percorso di studi, ma chissene, va bene così.

È andata allo stesso modo quando ho risposto alla prima mail dell'editore in cerca dell'autore giusto per un libro: non ero sicura di nulla esattamente tanto quanto mi sono sentita confidente e a mio agio mentre scrivevo i sei capitoli di laboratori di robotica creativa e attività con materiali di recupero che andranno a riempire le pagine del mio libro per bambini.

Ho pensato a questo post sulle partenze rallentate oggi, prima di pranzo, mentre camminavo con i miei amici nel Parco di Portofino, felice anche se in piena salita. Da bambina non amavo le gite in montagna, nonostante alla fine essere lì, tra prati mucche e sentieri mi piacesse da matti. Mi lamentavo un po' all'inizio e poi marciavo seria e concentrata fino alla meta. Lo faccio ancora adesso, iniziando piano e assestandomi poi sulle mie stesse frequenze, un passo davanti all'altro, aria dentro dal naso e fuori dalla bocca. Questo ingranaggio in movimento diventa improvvisamente la cosa più facile e indispensabile del mondo. Soprattutto se in cima alla strada ti aspetta una vista come quella nella foto, il panorama che si gode dall'Agririfugio Molini mangiando un piatto scuccuzzo con vongole e ceci e bevendo vino bianco.
Evviva.