mercoledì 27 novembre 2013

Mancanze

Sono a casa con la febbre oggi, poco male. Sotto al piumone, con pigiama, maglia, felpa e maglione con gli alamari mi godo i primi timidi effetti del paracetamolo. Il mal di testa persiste ma quel senso di oppressione su zigomi, fronte, occhi e nuca sembra attutirsi pian piano.
Ieri sera sono andata a cena fuori, solo donne, nella nuova zupperia accanto a casa. Per mesi ho visto quel locale riempirsi di operai, mattoni, conche di materiali, mobili e ho temuto si trattasse di un pub serale, pronto a tuffarsi nella movida genovese e a tenermi sveglia, soprattutto d'estate. Invece qui attorno non fanno che aprire posti da albero: una zupperia, un panificio per celiaci, il "mio" ristorante dell'estate, quello in cui lavorai per comprarmi il frigorifero, nella sua versione invernale, una mini cartoleria "tuttoauneuro" o anche meno, dove sono esposti, nel vicolo, anche gli animali di plastica. Dinosauri, granchi, serpenti, zebre, galline, topi, elefanti, di gomma dura, colorata, un po' brutta anche, ma che fa tanto anni '80, banchi di scuola, spiaggia, odore di plastica.
Ogni giorni che passa, in questa piccola casa verde e bianca, sto sempre meglio. Fa per me, lo sento. Anche se a volte la guardo in maniera lontana e distaccata, anche se spesso mi sento ospite tra i miei stessi muri, credo che la pace, il silenzio e la protezione che ho trovato qui fossero proprio quelli che mi mancavano. Basta spulciare in un robivecchi e portarsi a casa una seggiola verde bosco o trovare dei piccoli funghi rossi da piantare nel vasetto chiuso in serra, per sentirsi amati, per sentirsi a casa.
Ieri pomeriggio ho parlato tanto di mancanze, di controllo dell'assenza, di quanto questo mio nuovo rapporto con il cibo sia bello, importante e pericoloso al tempo stesso, o di quanto, per lo meno, io lo viva così. Mangio cose che mi fanno bene, mi concedo rarissimamente degli sgarri, delle "coccole" alimentari, sottoforma principalmente di lieviti e latticini. Non bevo quasi più nulla di alcolico, ho reintrodotto il glutine per capire se davvero la celiachia sarà una nuova compagna di giochi oppure no, ma per il resto persevero nella mia rigida dieta senza regali, tanto da portare a casa degli esami del sangue in cui colesterolo, trigliceridi, glicemia e transaminasi sono in certi casi addirittura sotto norma. Io, come sempre propensa alle dipendenze, ho le orecchie a punta in questo momento, tese a captare qualcosa che magari non c'è ma che è meglio vedere subito in caso ci fosse. Controllo quello che mangio, la quantità di coccole che ricevo, che mi concedo. In un momento in cui non ho proprio nulla di cui lamentarmi, in cui tutti i campi della mia vita mi offrono qualcosa di buono, di fortemente voluto, di tanto cercato, io mi tolgo del piacere dove posso. E mi piace, mi fa sentire forte, perché ho acquistato energia, perché ho perso i chili accumulati, perché non ho più mal di stomaco, perché la mia pelle è luminosa e perché ho di nuovo il controllo della situazione. Ho provato diverse mancanze, di persone che sono morte, di persone che sono passate nella mia vita e se ne sono andate facendomi soffrire, di soldi, di amici, di salute, di stimoli e soddisfazioni, ma non avevo mai provato mancanze alimentari, non avevo mai dovuto rinunciare a nulla. Anche in questo caso mi sono adattata con una velocità imbarazzante di fronte a questa assenza, ho tolto tutto quello che mi hanno detto di togliere esattamente nello stesso modo in cui dieci anni fa ho indossato la prima calza elastica e ingoiato la prima pastiglia per la coagulazione: non ho più smesso. Non ci sono ancora abbastanza elementi per capire quale meccanismo metto in pratica ogni volta, dove arrivi una semplice propensione caratteriale all'obbedienza e dove cominci uno spirito di sacrificio poco sano e legato al concetto di punizione. Tutto questo non l'ho capito per adesso, mi pare già una buona cosa ragionarci su e non prendere automaticamente per giusto ogni mio comportamento. Poi si vedrà.

P.S. Ho scattato questa foto domenica, durante una bella pessaggiata d'inverno con un'amica. Era l'ora del tramonto, c'era un cielo bellissimo. Ieri sera ho terminato il libro di Mauro Corona che mi ha regalato Andrea (Confessioni Ultime), tra le mille frasi che ho sottolineato c'è questa, che mi fa pensare alla foto lassù:
"La betulla piega il ramo fino a terra e scarica la neve altrimenti il peso glielo spezza. Cedendo vince."

domenica 24 novembre 2013

E-books, i libri di Elena

Qualche giorno fa Barbara, lettrice del mio piccolo mondo, mi ha chiesto di scrivere un post sui libri che ho amato di più. Impresa impossibile o, per lo meno, difficilissima. Ho imparato a leggere presto, ho letto molto (non moltissimo) nella mia vita, tantissimo da piccola, poco da adolescente, ho ripreso con regolarità all'Università e ora vado a ondate, di solito inversamente proporzionali a quanto scrivo.
Scrivo tanto, leggo poco e viceversa.
Compilare un elenco di libri che ho amato è difficile innanzi tutto perché non so come dividerli, come catalogarli. Per autore? Per genere? Per periodo della vita in cui li ho letti? Non ne ho idea, proverò a lasciar andare l'istinto, la stessa scelta che ho preso quando ho arredato casa e ho dovuto sistemare i libri su mensole, librerie e nicchie.
Se comincio dalle prime passioni non posso dimenticare Roal Dahl e Tove Jansson, uno con il meraviglioso GGG (Grande Gigante Gentile) e la seconda con tutta la serie dedicata alla Famiglia dei Mumin. Per quanto riguarda le raccolte sono costretta a citare anche la saga animata di Boscodirovo e la sua autrice, Jill Barklem, le cui storie hanno riempito giornate, domeniche, pomeriggi sui prati e serate sotto le coperte. Un librone gigante che mi ricorda la mia infanzia è Il Meraviglio viaggio del piccolo Nils (di Selma Lagerlöf), portatomi da papà dopo una trasferta, di cui però non ricordo quasi nulla, non so nemmeno se lo lessi fino in fondo.
Tralasciando i vari e scontati Noi ragazzi dello Zoo di Berlino e i famosi Jack Frusciante è uscito dal gruppo, i primi romanzi che "da grande" mi hanno fatto sognare sono stati La Regina Disadorna del mio conterraneo Maurizio Maggiani e Oceano Mare di Baricco. Da questo momento in poi, tanti dei libri che citerò saranno inevitabilmente legati ai sentimenti che si portano dietro, sia perché regalati da un amore sia perché associati a un periodo particolare della mia vita. Cominciamo da Banana Yoshimoto, di cui ricordo Kitchen e Sonno Profondo, due gran bei libri. Se resto in Giappone è ovvio che mi metto a scrivere di lui, il buon vecchio Haruki Murakami, primo su tutti Norvegian Wood, ma in questo caso faccio davvero fatica a scegliere: a parte L'arte di correre i suoi libri li ho amati tutti (in particolare L'uccello che girava le viti del mondo, Nel segno della pecora, Dance Dance Dance e Kafka sulla spiaggia). Tra le autrici femminili mi vengono in mente Alice Sebold e il suo Amabili resti (ricordo ancora che lo lessi in ospedale...che idea!), Miranda July con Tu più di chiunque altro, Margaret Mazzantini con Non ti muovere (quanto ho pianto!), Ester Armanino con Storia naturale di una famiglia e la Muriel Barbery dell'Eleganza del riccio.
In Italia ci sono i giovani come Davide Enia con Così in terra, Alessandro D'Avenia con Cose che nessuno sa o Fabio Giordano con La solitudine dei numeri primi e i meno giovani come Massimo Gramellini, di cui ho adorato Fai bei Sogni. Sempre di casa nostra, ormai qualche anno fa, mi è stato presentato Erri de Luca che, al di là delle polemiche sul suo modo di scrivere spesso simile a se stesso, alla brevità dei suoi libri, alla pomposità di certi passaggi, per me resta un grande autore e se devo scegliere un libro a caso di quelli che ho letto, d'istinto dico Montedidio. Altri italiani Niccolò Ammaniti con Ti prendo e ti porto via e Raffaello Mastrolonardo con Lettera a Lèontine (un massacro del cuore). D'estate, chi mi legge lo sa, prediligo i gialli e in particolare quelli nordici, per questo qui citerò i lavori di Anne Holt, uno su tutti il primo che mi capitò tra le mani ormai parecchi anni fa: Quello che ti meriti (in realtà nemmeno uno di questi piccoli thriller freddi e silenziosi mi ha mai deluso). Da poco ho invece scoperto Fred Vargas e per ora il migliore è, secondo me, L'uomo a rovescio. Tornando ai romanzi, uno di quelli che sicuramente ha segnato in maniera indelebile la mia vita e i miei gusti è Molto forte incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, in assoluto uno dei miei autori preferiti (del suo Ogni cosa è illuminata ho già scritto anche qui). Negli anni ho letto, e amato, anche Le ceneri di Angela di Frank McCurt, L'Amante di Abraham Yehoshua, Middlesex di Jeffrey Eugenides, Quella sera dorata di Peter Cameron, L'albero delle lattine di Anne Tyler (di lei ho letto molto e mi è piaciuto quasi tutto), L'età dei sogni di Anna Gavalda, La vita davanti a sé di Romain Gary (una Storia), Sabato di Ian McEwan e Nel mare ci sono i coccodrilli di Enaiatollah Akbari, letto da poco. Tra i saggi, cioè quei libri mistoscienza che tanto mi piace leggere ci sono L'uomo che scambiò la moglie per un cappello di Oliver Sacks, Se niente importa di nuovo di Safran Foer, Donne che amano troppo di Robin Norwood, Xto e J-C. Christo e Jeanne-Claude, la biografia di Burt Chelbow.
Mi accorgo che in in questo lungo post non ho dato spazio, più o meno volontariamente, né alle poesie, né ai libri su giardini-orti-alberi-fiori-ecoseverdichepiaccionoame, né ai grandi classici come L'amore ai tempi del colera o Il Piccolo Principe, non so perché, forse semplicemente perché li vivo meno come scelte: li ho letti perché...chi non lo ha fatto? Mi pare di averli recuperati tutti, o almeno molti, se dovessero venirmente in mente altri li aggiungerò e quando ne leggerò di nuovi farò altrettanto!

mercoledì 20 novembre 2013

Quello che sono diventata

E' già un bel po' che non pubblico un elenco, ed è già un bel po' che non scrivo di mio padre. Ma questa volta è diverso, perché il periodo è diverso e io sono diversa. Nonostante le milioni di cose che dovrei fare (e non faccio), una su tutte dedicarmi alla tesi di dottorato, nonostante ci siano ancora molti aspetti della mia vita che dovrei affrontare e cercare di capire, sono felice.
Sono felice perché trascorro giorni belli, sensati, o forse perché trovo il senso in cose che prima per me non ne avevano affatto. Forse questo senso non lo cerco neppure e la mia anima sempre inquieta si è improvvisamente rasserenata. Mai come nelle ultime settimane sto dicendo cosa penso alle persone che amo, a quelle che non amo, agli amici, ai capi, persino ai vicini di casa. Mai come nelle ultime settimane tutto questo mi solleva. Faccio solo fatica a prendere sonno la sera, in quei minuti al caldo del piumone vengono a trovarmi pensieri cupi, dolorosi, colpevoli. Ma per il resto del giorno le ore scorrono tranquille, nonostante le difficoltà, nonostante il tempo non basti mai. Non mi affretto più come una volta, non mi struggo più per uno sciopero AMT che mi costringe a camminare quaranta minuti sotto la pioggia e mi fa arrivare tardi in laboratorio, non mi lascio cogliere dallo sconforto nonostante non riceva le risposte che vorrei da molte delle persone a cui chiedo qualcosa. E allora è in quel momento che entra in gioco mio padre, che sogno ormai pochissimo e al quale non mi viene più naturale rivolgermi, in queste pagine, come se stessi scrivendo a lui. L'altro giorno mentre compilavo la lista dei desideri per Cindy ho pensato a cosa avrebbe detto se gli avessi mostrato quello che mi piacerebbe comprare, fare e vedere. Sono passati quasi nove anni, gli anni dei grandi cambiamenti, delle scelte, delle porte chiuse, per tutti. Per me sono stati anni di problemi di salute, arrivati a cadenza regolare, come un pendolo, quasi a ricordarmi da dove nasco, qual è la mia genetica, cosa è successo alla mia famiglia, a mio padre. Ora mi pare distante quella striscia scura di luci spente, rumori da non fare, cene inaspettate, voci alzate, film sul divano e gatti che ronfano. Mi pare distante non solo nel tempo ma anche nella mia testa, mi pare distante in modo sano, umano. E allora mi esce spontaneo un elenco, che ho annotato senza accorgermene, negli anni. Una lista delle cose che sarei curiosa di sapere come prenderebbe mio padre, di novità, di gusti, scelte e opinioni che ho abbracciato diventando una donna e che lui non potrà mai commentare con me. Eccola:
- Sono andata a vivere nei vicoli, da sola (e no, non in Piazza della Posta Vecchia)
- Ho imparato (parola grossa) a scattare fotografie in manuale e ho anche una reflex, lui secondo me non aveva nemmeno visto la mia compatta
- Vado pazza per l'agrodolce, metto l'uvetta negli spinaci e caramello le cipolle!
- Bevo la birra!
- Ho aperto (e chiuso) un'azienda, mi sono laureata e mi sto per dottorare (forse). Lavoro pure in università adesso.
- Continuo a non guidare, la sua dissuasione direi che è stata molto efficace!
- Ho tenuto i capelli lunghi, per molti anni
- Ho convinto la mamma a prendere una gattina che ora vive con lei
- Ho imparato a cucinare! Una cosa che gli sembrerebbe a dir poco incredibile
- Continuo ad essere terrorizzata dai ragni
- Sono andata in moto un sacco, l'ultima volta ieri con una mia collega
- Collaboro con un gruppo che lavora con i robot, robe elettroniche. Assurdo
- Mangio i cavoli e i finocchi crudi e vado matta per il pesce
- Continuo a truccarmi poco e a non indossare abiti troppo trasparenti
- Metto i tacchi e ci cammino pure bene!
- Non ho perso la passione per i mercatini dell'antiquariato e per i negozi di vestiti usati
- Ho smesso di parlare con lui e, nonostante tutto, è più vicino di prima. Con serenità.


martedì 12 novembre 2013

L'uomo che dormiva con le scarpe

Una volta c'era un uomo che dormiva con le scarpe. Che scomodità direte voi, che schifo. Lui però mica si coricava con le scarpe che metteva per uscire, lui ne aveva un paio apposta per la notte, con una bella suola robusta, la tomaia in pelle marrone, i lacci beige che annodava con il fiocco. Dopo essersi lavato i denti e abbottonato il pigiama fino in cima, l'uomo che dormiva con le scarpe si sedeva sul bordo del letto, indossava un paio di calzini puliti e infilava i piedi al loro posto.
D'estate e d'inverno. All'inizio aveva due paia di scarpe diverse, uno che cominciava a mettere a maggio, di tela azzurra con i lacci bianchi e uno per la stagione fredda, più alto sulla caviglia e con le cuciture spesse. Col tempo decise di arrangiarsi con una via di mezzo, che non lo facesse sudare nei sonni di luglio e lo sapesse riparare nelle notti di Natale.
Ma perché l'uomo che dormiva con le scarpe, dormiva con le scarpe? Per essere sempre pronto a scappare, per non farsi mai cogliere impreparato, per imboccare con destrezza il corridoio, aprire la porta d'ingresso e fuggire nel buio.
Aveva fatto la guerra? No. Era stato aggredito? No. Aveva subito minacce? Nient'affatto. L'uomo che dormiva con le scarpe sognava sempre, ogni volta che andava a dormire e sprofondava nel sonno lui sognava; ma non sognava i banchi di scuola, la casa dei nonni, il pranzo di Pasqua o le foglie d'autunno, lui sognava percorsi, fossati, ponti di legno e corda, salti nel vuoto, prati scoscesi, rocce appuntite. E sognava uomini vestiti di scuro che gli correvano dietro, garage semi aperti in cui nascondersi, automobili a fari spenti che gli sfrecciavano accanto, finestre sbarrate, tetti scivolosi, pollai silenziosi, scatole chiuse.
Prima di prendere l'abitudine a dormire con le scarpe, l'uomo che dormiva con le scarpe si svegliava in piena notte, nel bel mezzo di una fuga, con la schiena sudata e i muscoli contratti, senza capire cosa fosse successo e cosa lo avesse spinto a sgranare gli occhi nel buio, in preda alla sete e all'angoscia. Dopo diversi episodi di insonnia, spaventi, e sogni interrotti a metà, lo capì. Se ne accorse una notte di febbraio, mentre correva tra l'erba alta, con un senso di inadeguatezza diffuso, con il fiato corto e il rumore di qualcuno alle calcagna che spezzava rami secchi ad ogni passo e fendeva l'aria fredda e profumata di paglia. Mentre continuava a zigzagare, con falcate regolari, volgendo ogni tanto gli occhi verso il cielo stellato, sentì un dolore acuto sotto la pianta del piede destro, come una grossa spina che si conficca nella carne, come un pezzo di legno duro che si pianta senza fare rumore. Perse l'equilibrio, cadde tra l'erba e si rialzò, cercò a tastoni qualcosa di invisibile e di doloroso poco sotto all'attaccatura delle dita, provò a muoversi ancora, ma una mano gli afferrò la maglia, tra le scapole e lo tirò via dalla sua corsa, svegliandolo. Cosa era capitato? Semplice! Come la notte in cui saltando giù da un muro era atterrato su una bottiglia rotta tagliandosi un calcagno e ritrovandosi rigido e sveglio sotto le coperte, o come quando svoltando dietro ad un angolo aveva sbattuto l'alluce contro un marciapiede troppo sporgente ed era balzato dal letto urlando, anche quella notte nel prato stava sognando senza scarpe. Strade sporche, siringhe, pozzanghere, macchie d'olio, cacche dei cani, ghiaia appuntita, rocce taglienti, neve e ghiaccio, asfalto bollente, corridoi di treni e pavimenti di stazioni...tutti calpestati senza scarpe, di corsa, con la paura di non arrivare alla fine del gioco e di svegliarsi prima, senza aver superato lo svantaggio di aver combattuto ad armi impari. Come fare per vincere, per veder nascere il giorno dopo una notte dormita tutta di filato, per provare la bella sensazione di un atterraggio protetto, di una schivata in scivolata, di un balzo su un piede solo? Indossando un paio di scarpe, comode preferibilmente. Da quella notte di febbraio, quindi, sotto un cielo stellato tra l'erba alta, l'uomo che dormiva con le scarpe cominciò una nuova vita, iniziò a divertirsi, a svegliarsi realizzato e riposato, a sentirsi forte e capace, indipendente e in gamba, pronto ad annodare i lacci, fare un bel respiro, voltare le spalle al mondo e chiudere gli occhi.


venerdì 8 novembre 2013

Ma tu, di preciso, che lavoro fai?

Io, di preciso preciso, non faccio nulla. Ma se uno si accontenta della precisione non assoluta allora basta farsi andare bene questa definizione: "Io di lavoro cerco le piccole cose". Aridaje direte voi, con sta storia delle mini isole, del quotidiano, delle micro conquiste...però non sapete, perché non ne parlo (scrivo) mai, che è davvero così, che la maggior parte del mio lavoro si svolge al microscopio, davanti al monitor del computer, oppure in mezzo a risultati minuscoli, da sistemare e da rendere grandi.
Questo passaggio dal piccolo al grande lo faccio ogni giorno, dinanzi a tutte le occasioni che incontro e non solo sul lavoro, ma anche nell'amore, nell'amicizia, nelle passioni alternative che da sempre coltivo in semi silenzio.
Quando mi dedico a quello per cui ho studiato, sto studiando e per cui vengo regolarmente pagata (ancora un anno e mezzo), allora le cose piccole diventano tracce di colore, pennellate infinitesimali scampate alla furia pulitrice che ci ha contraddistinti per un buon periodo storico, quando riportare una statua al suo antico e candido splendore ci pareva la mossa più trendy e intelligente da compiere. Chissà se in quel tempo gli "addetti alla rimozione delle pitture" si sarebbero mai immaginati che secoli dopo una povera disgraziata, super precaria assegnista di ricerca, avrebbe passato intere giornate con una pistola a Raggi X in mano (Spettrofotometro a Raggi X portatile - XRF, per chi fosse interessato a capirne di più o già lo conoscesse), nella speranza di riuscire ad individuare, analizzare, rilevare e caratterizzare un piccolissimo granello rosso rimasto incastrato nella narice di un doge di marmo, una scheggia d'oro grande quanto una lentiggine appena visibile sull'aureola di un angelo di Pietra di Promontorio, una briciola di azzurrite in un mare di ardesia. E quindi benvenuti trabatelli mostruosamente oscillanti, macrofotografie, lenti di ingrandimento, microscopi USB da cantiere, lampade di Wood, diottrie, scale a pioli, seggiole, punte dei piedi, tutti ugualmente indispensabili per arrivare a padiglioni auricolari profondissimi (tipica sede di pennellate dimenticate), per guardare in mezzo alle dita dei piedi, tra le labbra o nei riccioli di un soldato di pietra, per raggiungere pannelli di lavagna dipinti e appesi in una chiesa o sovrapporta policromi dispersi in un vicolo di città. E quando, nei rari casi in cui mi è concesso effettuare un prelievo, posso portare il mio piccolo materiale via con me, allora è il momento di sedersi, preparare il campione nel suo letto di resina epossidica, guardarlo al microscopio ottico, contarne gli strati, confrontare i colori trovati con gli elementi chimici rilevati dall'XRF e dare un'ultima occhiata al tutto in microscopia elettronica (SEM-EDS), dove di solito escono fuori i nomi definitivi, dove un mercurio e un'ombra rossa vengono chiamati cinabro con più sicurezza, dove uno striscia bianca stesa prima di tutto il resto e piena di piombo è una preparazione a Biacca, dove un blu che non contiene rame e neppure cobalto probabilmente nasconde un preziosissimo Lapislazuli. Ieri ho guardato quattordici campioni al microscopio ottico e dopo mille peripezie, strumenti rotti, strumenti occupati, tempi stretti, tecnici in arrivo, tecnici in ritardo, tecnici assenti, scadenze e nervosismi, sono riuscita a prepararmi diverse cartelle fotografiche da cui attingere per report, relazioni e tesi.
In un grande insieme, bello e pieno di caratteristiche inequivocabili, cerco la distrazione, cerco la traccia di qualcosa che gli altri vedono a fatica, guardo di cosa si tratta, lo mostro a chi non lo trovava o non l'aveva mai visto, lo metto in luce e lo valorizzo, lo rendo importante perché lo è. Questo è ciò che spesso mi capita anche con la gente, le delusioni più grandi arrivano infatti quando ti sembra di avere trovato qualcosa di raro, di piccolo ma grande, di speciale e prezioso, e hai l'onore di notarlo tu per prima, di tirarlo fuori e rendergli merito, per poi accorgerti che questa minuscola macchia di colore non era altro che un intervento di restauro, una chiazza di vernice caduta lì per sbaglio, un granello di sporco completamente casuale.

venerdì 1 novembre 2013

Quei portoni chiusi a metà

Quando mi sono iscritta all'università, ormai un sacco di anni fa, non conoscevo le tante, anche bizzarre, usanze e tradizioni ormai consolidate che circolavano nei vari corridoi ed edifici di Via Balbi. I cani nel cortile che vagavano indisturbati a tutte le ore, il signore davanti al Bar Cavo che cantilenava ogni giorno "me lo paghi un panino?" in faccia alle migliaia di pendolari che si riversavano fuori dalla stazione, le foto post laurea (inspiegabilmente orrende quanto obbligatorie) scattate accanto al pozzo o sulla terrazza di Balbi 2, il portone di Lettere chiuso (o aperto, questa è come quella del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto) a metà in segno di lutto.
In tanti anni di studi quel portone si è mezzo chiuso parecchie volte, segno peraltro evidente dell'anzianità accademica in cui viviamo, ma ieri è stato diverso. Quando il telefonino mi è squillato durante l'animazione del Festival e ho visto la chiamata di Giacomo, non so perché, ho capito. Si sapeva che il Prof era malato da tempo e che presto avremmo appreso della sua scomparsa, ma quando se ne va un pezzo della tua vita, della tua formazione, della tua passione, un piccolo lenzuolo si posa su quell'angolo del tuo cuore. Io ieri stavo "insegnando" e quante volte mi capita di ritrovare nelle mie gestualità, nei miei modi di dire, nelle mie pause e nelle mie battute, gli stessi atteggiamenti di alcuni dei professori che ho incontrato durante il mio percorso. Sicuramente, molta dell'attitudine all'osservazione, della voglia di capire qualcosa di apparentemente complicato, della capacità di guardare un'opera incomprensibile, astratta, stupida e irriverente e coglierne i perché mi è stata passata da Lui, da questo signore un po' rotondo, con il sorriso timido di un bimbo, la voce pacata e dolce, l'enorme cultura e preparazione. Mai davanti agli altri, mai scortese e brutale, mai maleducato con gli alunni, mai scostante durante gli esami, mi ha raccontato la storia di Christo e Jeanne Claude tanto da farmene innamorare, mi ha mostrato il Blue di Klein, mi ha aperto il mondo di Staglieno con tutte le sue grane e tutte le sue meraviglie. Così è naturale per me andare domani a dargli l'ultimo saluto, ringraziandolo in silenzio per avermi insegnato a cogliere l'arte in ogni cosa, da una linea nera su un foglio bianco ad un'architettura complessa, dalla saturazione di un colore alla forma astratta di una statua.
Quando qualche giorno fa Davide, visitatore-pittore approdato nel nostro laboratorio, mi ha proiettato in un baleno nella poesia pura dell'arte contemporanea chiedendomi dall'alto dei suoi quanti? dieci anni scarsi? se poteva fotografare il soffitto della sala in cui ci siamo sistemati, io l'ho vista la fiamma della passione nei suoi occhi. Il fuoco della necessità di conoscere da vicino quelle strane macchie colorate, antichi residui di pittura, sparse sul soffitto, così da poter riversare su tela le emozioni suscitate da quella visione. In un laboratorio dove si pilotano droni, aerei robot telecomandati, dove qualunque ragazzino tra i sei e i sedici anni presterebbe attenzione unicamente all'I-pad e a quel meraviglioso coso nero che gira a mezz'aria, Davide era attratto da una visione, dalla proiezione del soffitto che la sua mente aveva già immaginato dipinta su un quadro. Quante volte, a lezione, il Prof mi aveva parlato di questi momenti, degli attimi in cui un artista contemporaneo percepisce l'opera in arrivo, la sente e la vomita, la espelle, la butta fuori con urgenza. E c'era urgenza negli occhi di Davide quando ha scritto sulla nostra nuvola dei messaggi le parole "Pitore Solpreso" sotto al suo nome, per ricordare a tutti che quella mattina, né i droni né probabilmente la mia spiegazione interattiva, piena di esperimenti e facce buffe, lo avevano sorpreso quanto quelle stupide macchie sul soffitto. Arte pura. E allora mi impegnerò a scattarla una foto a testa insù, a ritrovare Davide tra le centinaia di visitatori passati da noi e a mandargli quell'immagine che tanto gli era piaciuta, perché Lei, Prof, avrebbe fatto lo stesso.