sabato 25 luglio 2020

Si stacca di dosso la Terra


Ci siamo trasferiti a Vesima all'inizio dell'estate.
Agata si è ambientata benissimo: appena uscita dal trasportino, dove durante il viaggio aveva prontamente fatto i suoi bisogni, ha baciato Tobia e cominciato a marcare il territorio strusciandosi su ciascun vaso del giardino e annusando ogni angolo.

Qui le giornate trascorrono con un ritmo tutto loro, le mattine iniziano prima e così anche le notti, tra  rospi, grilli, il rumore costante del fiume e il profumo dei rampicanti fioriti.
Ceniamo fuori quasi ogni sera, illuminati dalle lanterne di carta e dalle lucine solari sparse un po' ovunque, usando quasi esclusivamente il BBQ e le verdure dell'orto... chi ci ferma più.
I cambiamenti, quelli veri, sono dentro casa (e pure un po' dentro al cuore): è giunto il momento di aprire armadi, scegliere vestiti, decidere cosa tenere, buttare, regalare. Si spostano mobili, quadri e libri, alcune stanze diventano altro e mini camere da letto si trasformano in zona cucito, dove ospitare anche il mobile pieno di ricordi ancora inaffrontabili e la postazione smart working per le poche volte in cui non vado in lab.

Purtroppo non riesco a vivermi Vesima quanto vorrei: grazie al traffico impensabile arrivo la sera stanca morta dopo i centri estivi e le ore di viaggio, quindi dedico il week end a tutte quelle faccende che in settimana restano inevitabilmente sospese. Appena giro la curva e vedo il mare, però, quando il sole tramonta e si alza un po' di vento salato, capisco subito perché sono tornata.

Ora è un anno e mezzo che non abito in un posto stabile, una parte dei miei vestiti è chiusa in scatole di cartone o appesa in guardaroba lontani, i cappotti sono ancora nell'ingresso e la biancheria in sacchetti di stoffa sparsi qua e là. All'inzio credevo fosse un momento necessario: avevo perso tutte le radici, come una pianta strappata dalla tempesta e nessuna parte di me voleva fermarsi a guardare dov'ero finita.
Mi sono impacchettata e portata da un appartamento all'altro, ho perso riferimenti e obiettivi, ho imbastito una ristrutturazione poi bloccata dal lockdown e non so nemmeno più dove ho messo le cose acquistate per la casa nuova.

Adesso, però, comincio a sentire la necessità di un posto dove stare, di stanze vuote da riarredare, di scaffali pronti ad accogliere i libri di sempre e quelli che verranno, mescolati agli oggetti di qualcun altro, che da questo uragano che è la mia vita è stato travolto quanto me.
Ho forse, finalmente, bisogno di stabilità? Probabilmente sono talmente spaventata che l'idea di ripartire con il rischio di essere di nuovo bruscamente interrotta mi fa troppa paura. La settimana scorsa erano quindici anni che è morto mio padre, sedici che ho scoperto di non avere la salute di ferro che credevo e, nonostante non sia ancora entrata negli anta, di anni me ne sento addosso almeno dieci di più.

Questo è quanto e, considerando i tempi e la vita, è già tanto. Me lo insegnano quotidianamente i bambini che seguiamo, quanto le radici possano essere precarie e sottili.

A dispetto della frase scelta per il titolo e presa da una delle canzoni di Cosmo che meglio riassume cosa sono stati gli ultimi mesi, direi che il brano giusto per raccontare il percorso iniziato a marzo dell'anno passato è questo. Una camminata in montagna che porta alla cima e che riparte, sempre più dura, ogni volta che mi sembra di essere arrivata nonostante il peso sulle spalle.
Buon ascolto, dunque, lo dico soprattutto a me stessa.

P.S. Nella foto quassù, una goccia di montagna, dove ci siamo rifugiati un paio di week end fa in compagnia degli amici matematici-pasticceri.