domenica 30 giugno 2024

È successo davvero!

Ero stata dimessa dall'ospedale da qualche giorno.

Stavo imparando a stritolare, ogni mattina, la mia gamba sinistra in una lunga calza color carne che si annodava in vita, ma non stavo imparando ad accettarla, ad accettare che da quel momento avrei dovuto indossarla sempre, in qualunque occasione, per anni.

Prima del ricovero avevo già provato a chiedere, timidamente, aiuto, perché avevo paura, nessuno mi credeva e quindi avevo deciso di essere, semplicemente, pazza. Mi avevano ascoltato e prescritto delle compresse che avevo puntualmente vomitato fino a che gli anticoagulanti erano diventati ben più urgenti e di quelle pastiglie per l'ansia nessuno aveva parlato più.

Ero stata dimessa dall'ospedale da qualche giorno quando mio padre, dopo un pranzo nella scuola del paese, aveva deciso di andare a casa perché non si sentiva bene. Non vedendolo tornare ero scesa a dare un'occhiata e l'avevo trovato riverso sul divano, con la pelle fredda, il respiro affannoso e la mano destra che stringeva il braccio sinistro. 
La telefonata con il 118 non l'ho mai dimenticata:
- è cosciente? sì
- respira male? sì
- sente dolore al petto o al braccio sinistro? sì
- è pallido? sì
- ha il colesterolo alto? sì
- suda? sì
- è sovrappeso? sì
- ha i trigliceridi alti? sì
- è un fumatore? sì
- ci sono casi di problemi cardiaci in famiglia? sì
Mentre rispondevo sì a ogni domanda e seguivo tutte le indicazioni dei paramedici (lo faccia sdraiare, lo tenga calmo, stiamo arrivando con l'automedica) entrava di corsa anche mamma, per poi salire in ambulanza con lui.

Nel giro di tre settimane io avevo avuto una trombosi in una gamba e lui nel cuore.
Trascorremmo giorni bellissimi, andavamo insieme a fare le analisi del sangue per controllare la coagulazione due volte a settimana, ci fermavamo in un bar orrendo a fare colazione, stavamo all'ombra mentre mamma era impegnata con gli esami di maturità.
L'estate della trombosi fu il periodo più bello che abbia mai passato con mio padre.

A settembre ci trovammo improvvisamente a dover ditruggere e ricostruire da zero il suo amato giardino a causa di una perdita e, mentre io studiavo per la sessione autunnale, lui litigava con i muratori che sbagliavano, di qualche micron, la posizione delle nuove piastrelle.
L'aria cominciava a rinfrescare, soprattuto la mattina presto, perciò quel mal di schiena che non passava fu liquidato, dal medico della mutua, come un colpo di freddo. Del resto era lo stesso medico che, pochi mesi prima, aveva sentenziato, analizzandomi il polpaccio: "non so di preciso cosa sia, ma sicuramente non è nulla di vascolare".

Al mal di schiena si aggiunse la tosse, stizzosa, fastidiosa, continua.
Facemmo una lastra, per sicurezza, anche se lui non voleva, perché l'anno precedente, sotto Natale, i raggi che gli furono prescritti per respiro corto e tosse non erano serviti a nulla.
A sto giro, però, ricordo ancora l'aspetto di mia madre che saliva le scale per raggiungermi nella sala d'attesa del medico di famiglia dove le stavo tenendo il posto: era pallida, si vedeva che aveva pianto, tremava pure un po'. 
Aveva letto il referto, lo lessi anche io e lo lesse anche il sostituto del dottore, osservando i polmoni di mio padre sulla lavagna luminosa:
"è un fumatore?"
"sì"
"ha un cancro, anche bello grosso. Dovrebbe fare una TAC perché ci saranno sicuramente metastasi, ma io non la prescrivo. Per i fumatori non prescrivo esami così costosi".

Quella sera non tornai a casa, rimasi a dormire fuori, mamma voleva rimanere sola con suo marito.
Ricordo che pensai "ora come lo dico alla dottoressa, da cui sono andata solo un paio di volte, che di me non possiamo parlare più perché mio padre ha un cancro ai polmoni?"

Dopo l'estate avevo deciso di riprovare ad affrontare la questione "paure", anche perché l'ansia della morte, mia e degli altri, negli ultimi mesi si era trasformata in una certezza. Avevo iniziato un percorso di analisi transazionale con una psicoterapeuta consigliatami da un collega di mamma, terapeuta a sua volta. Mi sedevo una volta a settimana in quella stanza bianca, in un palazzo con il cancello spesso, affacciato sulla passeggiata. 
M. mi ascoltava, non giudicava mai, parlava poco e con voce calma. 
L'ho seguita ovunque, dalla stanza bianca alla stanza gialla numero uno, poi dalla stanza gialla numero uno alla numero due e poi dalla stanza gialla numero due alla numero tre, l'ultima.

C'era M. quando cambiavo la bombola di ossigeno, quando aggiornavo mamma, che mi telefonava da scuola, sulla visita della palliativista, quando studiavo per laurearmi una volta finito tutto.
C'era M. quando, nove mesi dopo, mio padre non c'era più.

C'era M. quando ho scoperchiato l'enorme vaso di Pandora che aveva inghiottito le verità più marce della mia infanzia, quando ho deciso di andarmene per vivere da sola nella casa sui tetti con la porticina rossa, quando il corpo parlava al posto mio e si ammalava di qualunque cosa, continuamente, senza darmi un attimo di tregua.

C'era M. quando, a un certo punto, ho avuto bisogno anche di R., perché i sintomi erano troppi, perché ci volevano risonanze, prelievi, martelletti e medicine.
M. c'è stata sempre, anche quando, per due volte, non c'ero io.
Non era ancora il momento giusto per mollare e lei ha aspettato che tornassi, che riprendessi le fila del discorso, che portassi tra quei muri gialli tutta la paura che avevo dentro.
M. è stata la prima persona che ho chiamato quando è morto mio padre e la prima persona che ho chiamato quando è morta mia madre.

Abbiamo trasferito on line le nostre sedute durante la pandemia, abbiamo parlato del lavoro, del mio matrimonio, degli amici, della vita.

L'anno scorso, in primavera, M. mi disse che, forse, avrei potuto beneficiare di un altro approccio, per sciogliere quegli ultimi nodi che tanti anni di terapia non erano stati capaci di allentare.
E così, curiosa e un po' agitata, mi ritrovai davanti a E.

M. aveva avuto, ancora una volta, ragione.
Una settimana dopo l'altra, una seduta dopo l'altra, i pozzi più bui in cui ricadevo ciclicamente erano stati individuati, perlustrati, svuotati, ripuliti e chiusi.
L'EMDR è una tecnica di poche parole e io ne avevo già dette tante, tantissime: evidentemente, quello che mi serviva ora era agire metodicamente, in silenzio, come un chirurgo che, super concentrato, deve rimuovere un coagulo che impedisce al sangue di scorrere libero.

È trascorso un anno dal mio primo incontro con E. e, pochi giorni fa, ci siamo salutate.
Abbiamo finito.
Per la prima volta, dopo 20 anni esatti, non sono più in terapia.
Sono stata congedata.

Non so ancora come mi sento, non so nemmeno se non dovrò tornare, prima o poi... lo scoprirò.
Ma qui avevo voglia di scriverlo, se non altro perché voglio ringraziare M., R., E. per tutto il lavoro che hanno fatto con me e per me.
Se ho sempre continuato a camminare e se ora riesco persino a farlo senza paura, è soprattuto merito loro.


Nessun commento:

Posta un commento