domenica 24 marzo 2024

Un, due, tre... stai là!

 


Musica

Qualche anno fa ho scoperto, con non poco stupore, che il gioco Un, due, tre…stella! si chiama, in realtà, Un due tre…stai là!
Non so se sia vero e, comunque, non è questo il punto.
Il punto è che quello che mi fa venire in mente il titolo inaspettato corrisponde, più o meno, a come ho vissuto negli ultimi mesi.


Ieri erano cinque anni che è morta la Maria e, finalmente, mi sembrano trascorsi 5 anni.
Non è successo tre anni fa, nemmeno l'anno scorso, neppure ieri.
è successo cinque anni fa.


Dall’ultimo post su questo argomento a oggi sono cambiate un'infinità di cose nella mia vita, eppure, da fuori, probabilmente sembra solo che io stia giocando a uno due tre stai là.
Ferma tra un passo e l'altro.

Forse è proprio questo che ho fatto per un anno: un gioco in cui ho concentrato tantissimo di me in pochi scatti e poi mi sono immobilizzata a riprendere fiato. Mi sono voltata per sbirciare, solo ogni tanto, la strada percorsa, non ho guardato quasi mai il muro da raggiungere davanti a me, ma mi sono impegnata fortissimo ad avanzare.

Come? Ascoltando.
- La paura, lasciandola entrare e invitandola, dolcemente, a uscire. Come fosse un bambino che deve imparare, pian piano, a dormire da solo nella sua stanza.
Il corpo, dandogli lo spazio che nella mia vita non ha (quasi) mai avuto, regalandogli sonni tanto lunghi quanto inediti su questi schermi, pur proponendogli sveglie molto più anticipate del consueto, per dargli l’opportunità di muoversi.
La tristezza, quella pura, spontanea, di tutti i giorni, concedendole finalmente di uscire con un mezzo banale, ma chiuso in garage da secoli: il pianto. A dirotto, nei luoghi più disparati, nei momenti più inopportuni.
La speranza, permettendole semplicemente di esistere, dopo averla dimenticata per scaramanzia in un cassetto, pieno di cose verdi, di progetti, di idee, ancora lontani nel tempo e nello spazio, ma pur sempre immaginabili e perché no, magari pure possibili.

Poi ci sono cose che, piuttosto di recente, si sono timidamente affacciate nella mia vita per diventare, via via, parte integrante delle giornate e, in alcuni casi, addirittura parte imprescindibile.
Cose che mi fanno percepire lo stare, come un esserci in maniera autentica.
Mi ritrovo, per esempio, a compiere movimenti semplici tipo aprire un cassetto e rendermi perfettamente conto di quello che sto facendo. Come se andasse tutto a rallentatore, come se i sensi fossero amplificati e non semplicemente iper vigili (quella è la mia condizione base di allerta, che, per ora, non ha intenzione di abbandonarmi).

Tutte queste cose nuove hanno, credo, una base comune: il tempo.
Mi sono sempre lamentata, negli ultimi anni forse ancora più che in passato, della mancanza di tempo a disposizione per fare, scoprire, imparare, riposare. Quando scrivo lamentata intendo, in verità, resa conto, perché, in fondo in fondo, l’ho sempre saputo che, nella condizione privilegiata in cui vivo, il tempo, volendo, ci sarebbe.
Ho quindi deciso di andarlo a cercare, questo benedetto tempo, per riempirlo e svuotarlo ogni giorno.

Per avere tempo occorre togliere tempo, questa è la prima cosa che ho capito. Sembrerà banale, e forse lo è, ma in una giornata di 24 ore, in cui il lavoro ne occupa 9, a volte anche 10, le restanti 15 devono essere suddivise, almeno, in tempo per dormire e tempo per mangiare.
Posso ormai dire di conoscermi e so che per stare bene ho bisogno di 7 ore di sonno, quindi ecco che le ore disponibili diventano, magicamente, 9.

Da agosto sono seguita da una nutrizionista per una serie di problemi digestivi e metabolici ormai non più ignorabili e il mio rapporto con il cibo ha dovuto per forza cambiare. Le quantità sono pressoché rimaste invariate, la qualità, invece, è stata stravolta.
Per me che non mangio praticamente più carne, perdere i legumi è stato un trauma.
Il colesterolo ballerino non mi permette di abbondare con uova e formaggi e, così, mi resta il pesce a cadenza molto più frequente del passato. Ma come si cuoce il pesce? Come posso prepare il tofu e il tempeh affinché non mi sembri di mangiare l’imballo dei pacchi di Amazon? Come si concilia l’amore per la cucina, intesa proprio come gesto del cucinare, con una variazione così decisa delle mie abitudini? E come si riesce a preparare per due tenendo conto delle esigenze e dei gusti dell’altra persona? Rispondere a tutte queste domande ha richiesto impegno, ma è così che sono nati il menu e la spesa settimanali: per risparmiare tempo e dedicare alla cucina non più di un’ora al giorno.

Rimangono 8 ore che, per metà dell’anno, diventano 6 perché gli spostamenti casa-lab sono molto più lunghi, ma non importa: in quel tempo posso leggere, ascoltare podcast, guardare video (magari, in futuro, potrei pure dedicare un post anche a queste cose).

Tutto il tempo che rimane lo dedico, a
- lo yoga, possibilmente alle 7 di mattina. A parte il trauma della prima volta, ormai due volte a settimana mi sveglio alle 6, mangio un paio di biscotti ed esco. Faccio sempre la stessa strada, di solito con la musica nelle orecchie, mentre il corpo riparte e la testa si preparano a otto ore di pc. Per iniziare questa nuova abitudine ho parallelamente cominciato ad andare a letto prima: se il giorno dopo devo alzarmi alle 6, alle 22.30 sono già sotto le coperte.
- l’EMDR, un’ora a settimana, dove smonto tutto quello che mi è successo negli ultimi 42 anni e sistemo, pazientemente, i danni.
- la cura della mia persona e della casa, perché tutt* ci laviamo, facciamo il bucato, cambiamo le lenzuola…
- la famiglia, che essendo composta da due esseri viventi (piante escluse) oltre a me, è molto facile da gestire: bastano un divano, una coperta, una manciata di crocchette, una serie TV, un argomento interessante di cui parlare, il bisogno di sentirsi vicini.

Ma quindi, il titolo del post e la ricorrenza in cui ho deciso di pubblicarlo, cosa c’èntrano con tutta questa pappardella sul tempo?
La spiegazione sta nella frase che ho scritto poco più su:
Mi sono voltata per sbirciare, solo ogni tanto, la strada percorsa, non ho guardato quasi mai il muro da raggiungere davanti a me, ma mi sono impegnata fortissimo ad avanzare.
Nel quinto anno dalla morte di mia madre posso, forse, sussurrare che ho ricominciato a vivere bene. Per farcela ho dovuto stravolgere tutto, cambiare modo di stare al mondo, utilizzare il tempo con criterio, come se fossi in una casa di cura in cui ogni momento è funzionale al recupero.

Ci sono aspetti di cui vado particolamente fiera e altri che mi appesantiscono ancora, come il senso di colpa quando mi accorgo che la penso meno (faccio persino fatica a scriverlo senza sentire dolore).
Ma, dopotutto, è così, la penso meno e la penso meglio.
La ricordo viva e mi manca più di prima, più di quando rimpiangevo uno scheletro calvo e terrorizzato, perché era l’unica immagine che ricordavo di lei, l’unica che tornava a tormentarmi giorno e notte, qualsiasi cosa facessi per non pensarci.
Ora non è più così, ora è i fiori di Vesima che aspettano l’estate, è la pelle delle sue guance sempre fresche, è la sagoma storta che mi cammina davanti spedita, è la bottiglia di vino lasciata sul tavolo in cucina, è la battuta giusta al momento giusto, è il sorriso enorme e contagioso, è l’ascolto silenzioso, sempre e comunque.

Ora è finalmente, di nuovo, la Maria.

Quindi eccoci qui, il post è finito e ora schiaccio il tasto pubblica, direttamente dal suo giardino, in una bellissima giornata di primavera, come quella di cinque anni fa.

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