martedì 27 dicembre 2022

Light Years

Musica

Questo post ha diversi "colpevoli".

La prima, ovviamente, sono io.

Gli altri, in ordine di comparsa, sono Matteo Caccia e Francesco Costa.
Ma, in realtà, siamo tutti noi, mia madre compresa.

Come spesso mi succede, soprattutto da quando le mie comparse quassù si sono rarefatte assai, avrei inizialmente voluto scrivere di altro.
Avevo pure cominciato a buttare giù pensieri e idee sul quaderno, il tema principale doveva essere il mondo delle newsletter, il mio rapporto con le mail mensili a cui non ricordo neppure di essermi iscritta e l'opportunità di trasformare questo spazio in un appuntamento più contemporaneo, meno blog e più social, meno post e più mail. 
Spoiler: non succederà.

Quindi, fatte le doverose premesse, riprendo dal punto in cui ero rimasta prima di sproloquiare:
questo post è scivolato dalle mie dita in una sera di Vigilia, dopo aver mangiato tortellini industriali su una tavola non apparecchiata, con le seggiole accatastate sopra, per facilitare il lavaggio pavimenti.

Domani è Natale, l'anno è quasi finito e la settimana scorsa è morto Siniša Mihajlović.
Non sono tifosa, quando ho letto la notizia sui giornali sapevo a malapena che carriera avesse fatto, ricordavo che era malato, non avevo capito quanto.

Poi è arrivato Matteo Caccia, su cui dovrei aprire una parentesi gigantesca e probabilmente tra poco lo farò, che ha condiviso su Instagram il link a una puntata di Morning in cui Francesco Costa parlava della morte di Mihajlović e del modo in cui veniva raccontata dai quotidiani, in particolare da quelli on line.

Ed eccola lì, la retorica del guerriero.
La malattia come una battaglia, le terapie come una lotta, i malati come soldati, la morte, infine, come una guerra persa.

Tutti ragionamenti già letti, per quanto mi riguarda pure già fatti e persino in tempi non sospetti. Ricordo perfettamente le chiacchierate con mamma su quanto fosse inopportuno, irrispettoso e persino inutile riferirsi a una persona ammalata come a un paziente al fronte. Svalutando il ruolo e il senso della scienza, riponendo responsabilità sull'unico soggetto che dovrebbe non averne, caricando la situazione di metafore e scenari lontani anni luce dalla realtà che, ogni giorno, i malati e le loro famiglie affrontano come possono. Di certo non armati.

Eppure.

Eppure non appena la Maria aveva scoperto di avere un cancro in fase terminale si era fatta rasare i capelli e aveva iniziato a indossare una parrucca. Prima ancora, però, mi aveva chiesto di insegnarle ad annodare foulard e turbanti per coprirsi il capo. Il suo profilo FB ha tutt'oggi, come foto profilo, quella che le scattai un pomeriggio, mentre guardava il suo giardino dall'uscio di casa con un fazzoletto rosso in testa. La scritta sotto, scelta da lei, recita: "La combattente".

Eccallà.

Ed è così che i mesi successivi erano andati, con la convinzione di avere colpa se le terapie non funzionavano, se i chili continuavano a scendere, se gli esami peggioravano.
Fino al ricovero in hospice dove la dottoressa dovette spendere parecchie parole per convincerla che non avrebbe potuto fare di più, davvero, per fronteggiare la sua malattia, che non aveva avuto alcuna responsabilità, che nessun cibo, nessun medicinale, nessuna decisione avrebbero cambiato le cose.

Eppure.

Eppure un paio di giorni dopo la morte di mamma scrissi a Matteo Caccia, all'epoca conduttore di Pascal, trasmissione radiofonica seguitissima da mia madre, alla quale partecipò pure con due storie che ormai, appunto, sono storia.
Non so perché gli mandai quel messaggio su Facebook, in piena notte.
Probabilmente per consegnare a lui un pezzetto del mio dolore, a lui che aveva ascoltato e dato spazio alla voce di mia madre e che, in qualche modo, pensavo fosse abbastanza lontano (e vicino) da ascoltare e dare spazio anche alla mia.

Gli mandai il messaggio che ora potete trovare sul suo nuovo libro "Voci che sono la mia" (ecco) e che, tra le altre cose, diceva così:
Mamma 
si è ammalata l'estate scorsa, ha lottato come una vera leonessa, ma il cancro al pancreas ha vinto. 

Lotte, leonesse e vittorie, in una frase di venti parole scarse.

Ma, del resto, il mio intento era quello di inviargli la lettera che la Maria scrisse all'inizio del suo viaggio e che venne letta in chiesa durante il funerale.
La lettera iniziava così:
Ho lottato più che ho potuto ma, stavolta, sono stata sconfitta.

E allora mi chiedo, perché, anche noi che avevamo più volte riflettuto sulla tossicità di questa narrazione, alla prima occasione che, purtroppo, ci è capitata, ci siamo cascate a piè pari?

Lo spiega bene Costa nella puntata di Morning del 19 dicembre: 
"...tutti in generale utilizziamo parole non nostre, non pensiamo a quello che diciamo, attingiamo a una cassetta degli attrezzi di espressioni, di culture, che è stata predisposta per noi da qualcun altro, dalla cultura popolare cosiddetta, dai giornali, dalla televisione. Usiamo parole scelte da altri tipo queste sul guerriero e sulla lotta perché non riusciamo a trovarne di nostre ed è chiaro che è difficile trovarne di nostre a fronte di una cosa così tragica e enorme come la morte, la morte prematura di una persona così amata..."

Preferisco quindi trovare un senso e uno sguardo diverso su tutta la questione in ciò che mamma scrisse un paio di giorni dopo la diagnosi, quando ancora le leonesse stavano nella savana, quando la battaglia non era nemmeno stata presa in considerazione e dei combattimenti non c'era alcuna traccia.
Era (e dovrebbe sempre essere) il regno degli stambecchi, pronti a saltare con l'aiuto degli amici, era il momento dei tentativi, della condivisione delle preoccupazioni, dei ricordi che danno speranza.
Era, ancora, il tempo dei proverò:

Trentaquattro anni fa, in uno dei tanti momenti terribili della mia vita, dissi a un amico che non avrei voluto essere un cagnolino, a cui non vengono lesinate coccole, neppure da coloro, inutili ipocriti, a cui non gliene può importare di meno.
Lui mi rispose che, mai, io avrei potuto assomigliare a un cane: io ero uno stambecco che, proprio quando, in bilico sulla roccia più impervia, sembra stia per cadere, con un salto favoloso riesce sempre a rimettersi in salvo e ricominciare.
Che bel complimento!
Amici, il balzo che dovrò provare a fare adesso è quasi impossibile!
Se fossi isolata, in cima a un monte, senza parenti e amici sarei uno stambecco disperato e il vuoto mi farebbe troppa paura per saltare.
Ma io sono sicura di non essere sola e, unicamente per questa mia certezza, proverò a non cadere.
Proverò…

Ora è il mattino del 27 dicembre, tra poco partiremo per trascorrere al paesello gli ultimi giorni di festa.
Il post è rimasto in stand by per un po', nonostante fosse nato in meno di mezz'ora, come un'urgenza più che come una riflessione ragionata, pensata e confezionata per chi la leggerà.

Non è comunque mai stata mia intenzione tornare a scrivere di lutti, perdite e sofferenze, anzi.
Vorrei, con queste poche righe che di natalizio non quasi hanno nulla (o forse invece sì), essere vicina a chi sta trascorrendo giorni di angoscia, di tentativi, di speranza e di paura, a chi è malato o caregiver, a chi fa fatica a stare al mondo perché, semplicemente, fa fatica. Per motivi che non si vedono, non si capiscono, non si accettano, sono anni luce da noi e dal nostro modo di vivere la vita.
E non c'è lotta che tenga.




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