sabato 28 settembre 2013

September morn

In realtà non è mattina, ma è settembre, fine settembre.
Vicino a me tutti fanno qualcosa, di bello, di brutto, di utile, di divertente, di stupido, di speciale, di consueto, di interessante, di profondo, di spensierato. Io non faccio nulla.
Però guardo tantissimo, attorno a me, nel cielo, tra le pagine del poco che leggo, sul bus, nelle vetrine dei negozi, dentro i miei pensieri.
Ci sono almeno sette cose che dovrei fare: scrivere la tesi di dottorato, pensare alla visita guidata di novembre, preparare la conferenza di ottobre, organizzarmi per il seminario di dipartimento, lavorare al laboratorio del Festival, far crescere il blog di SDR, costruire dieci ore di power point. Nonostante tutto, non faccio nulla.
E persino scrivere qui ultimamente è diventato una fatica, anche se la parola "fatica" non è la più appropriata. Semplicemente non ne ho voglia, non ne traggo sollievo, non mi interessa, cosa che raramente in questi anni mi è accaduta.
Ho sempre trovato rifugio nell'idea di avere stanze alternative in cui chiudermi al bisogno, orizzonti diversi da quello del lavoro in Università, spazi dove coltivare le mie inclinazioni, dove pensare al passaggio di informazioni ai più piccoli con divertimento e scienza, dove guardare foglie, fotografare alberi, leggere libri sulla natura, senza che le mie paure vincessero su di me.
In questi giorni le stanze sono tutte chiuse e io la chiave l'ho persa. Immagino le cose che ci sono al di là, gli aerei di carta che mi attendono, i romanzi che profumano di pagine nuove, le fotografie di polveri e pigmenti da spiegare e non riesco a muovermi, come se mi avessero colato un secchio di cemento a presa rapida attorno alle caviglie.
Un timido e triste passo indietro, una richiesta d'aiuto indispensabile, mi ha fatto perdere fiducia nelle mie capacità (se mai ne avessi avuta), mostrandomi la realtà travestita da fallimento.
E anche la consapevolezza che tutto questo mio vagare, queste giornate passate a letto stravolta dalla stanchezza di non fare nulla, queste sere in punta di piedi nel silenzio di una casa vuota, siano semplicemente il riproporsi infinito e periodico di una dinamica stranota (a me, a chi mi conosce, persino a chi mi legge), non basta a farmi svegliare dal torpore né a impedirmi di morire di paura.
L'angoscia di ereditare uno scettro dorato, fatto di chiusura e di genetica incapacità alla vita, è troppo difficile da affrontare da sola, è subdola e si allea con personaggi normalmente lontani dal mio cuore, chiamati gelosia, rabbia e rancore.
Mi trasfiguro, non sono io, sono pesante e leggera, profonda e superficiale, divento aggressiva e mi sfugge di mano una dolcezza conquistata dopo anni di freno tirato, che amo tanto esprimere con mille carezze su quella nuca di velluto.
Non mi piaccio e non riesco a piacere, non posso piacere. Mi rivoglio indietro, senza sconti, mi piglierei a schiaffi per farmi svegliare, per farmi vedere le fortune immense che ho, per farmi mettere in moto il cervello, per risolvere velocemente gli obblighi inevitabili e dedicarmi con gioia a quello che mi riesce meglio.
Con i calzettoni al ginocchio, la maxi felpa rosa e la camomilla calda, passo e chiudo da questa stanza vuota.

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