martedì 25 febbraio 2014

Il mio spazio bianco

Di Valeria Parrella ho letto da poco anche Tempo di imparare. Bello, doloroso, intenso, a tratti difficile, vero. Una sberla, un riconoscere dinamiche viste tante volte con i bimbi più fragili, con i genitori dispersi, con le famiglie appese a una diagnosi e a un futuro inciampato.
Stasera però vorrei scrivere di Lo spazio bianco, centododici pagine di cui non si può più fare a meno dopo la terza, forse pure dopo la prima.
Scopro ora che ne è stato fatto anche un film, con la Buy che a me piace tanto e che effettivamente si riesce a immaginare proprio bene nei panni dell'insegnante di italiano della scuola serale, donna, madre, donna-madre anzi, che si ritrova sola davanti ad un'incubatrice, ad una domanda sempre uguale e ad una giostra di occhi, attese, visite, odori, sigarette e consensi informati che solo chi ha visto può capire.
Come sempre un libro ci colpisce quando parla di noi, o quando, in qualche modo, riesce a far vibrare una nostra paura, un pensiero che abbiamo nascosto, un desiderio sepolto sotto il buonsenso, un ricordo che pareva cancellato.
Ci sono molti passaggi ben scritti, lo stile dell'autrice è strano, diverso da tutti, familiare quanto particolare, come se fosse un misto di pensieri conosciuti e di dichiarazioni sintatticamente perfette.
Come sempre quando scrivo di un libro che ho letto lascerò "parlare" qualche pagina mangiata qua e là, rimasta segnata dalla matita e riletta una, due, tre volte.

La testa si era esercitata così, a fidarsi solo di se stessa. E allora ritornava nell'equivoco di bastarsi da sola ogni volta che si sentiva tradita dalla realtà
Questo brano era il P.S. dell'ultimo post, sta nella prima pagina e basta a farti andare avanti senza un minimo dubbio.

Niente è stato più completo e libero della mia solitudine nella mia casa
Una cosa a cui ho pensato e penso spesso, quando cucino una cena tranquilla, con la radio accesa, le luci basse e la stanchezza per la giornata appena trascorsa che comincia a farsi sentire.

Io possedevo da sempre un'arroganza di fondo. Quell'arroganza mi era venuta dalla fabbrica. Dalla sua catena di montaggio uscivano due modelli che si sviluppavano insieme e si intrecciavano senza darsi noia. La fabbrica non inghiottiva solo chi ci lavorava, ma anche chi campava di essa, chi aspettava la fine dei turni e le sirene per costruirci attorno la giornata, una giornata dopo l'altra. Crescere figlia di operaio negli anni Settanta e poi proprio per questo studiare, intestardirsi sui libri, diventare la generazione dello scarto intellettuale, erano cose che davano una certa arroganza. Perché a vedermi da fuori io lo sentivo, di essere la prima persona della famiglia che non avrebbe avuto le braccia corrose dal succo di pomodoro
Qui c'è molto di quello con cui ho fatto i conti crescendo, mia mamma e i discorsi sull'indipendenza e le difficoltà della sua generazione ricalcano molto da vicino le parole del libro.

Non sono buona ad aspettare. Aspettare senza sapere è stata la più grande incapacità della mia vita. Nell’attesa ho avuto lo spazio per costruire enormi impalcature di significato, e dieci minuti dopo farle crollare, per mia stessa mano. Poi riprendere da un punto qualunque, correggere il tiro di qualche centimetro per rendere la costruzione immaginata più solida. Vederla crollare di nuovo. Ho speso svariati fine settimana della mia vita in quest'opera, e pur riconoscendola, non ho mai saputo distrarmi. Ho sentito la tragedia dell'attesa arrivare da lontano da una telefonata, da un viaggio, da una mail, da una notte di sesso, da un ospedale. Ho scelto dal mio arsenale di dischi la musica che incalzasse l'angoscia, quella per stemperarla, poi più che piangere: per sfinimento mi addormentavo. Nell'attesa ho sempre fatto sogni chiari, di epoche che non ho dovuto conoscere né attraversare, il sogno è stato il tempo speso meglio, e una volta sveglia il dolore era decuplicato. Io non so aspettare e non voglio farlo, nell'attesa i mostri prendono forma e si ingigantiscono, mangiano le ore per crescere e mangiarmi. Non sento curiosità nel dubbio, né fascino nella speranza, fossi stata Eracle, non mi sarei fermata al bivio.
Uno dei passaggi più vicini al mio modo di vivere le attese, gli spazi bianchi.

Con le cose buone della vita io non ero mai stata indulgente. Forse credevo di più alle sconfitte, sapevo affrontarle meglio: erano come le temevo, cioè come le avevo immaginate. Intorno alle cose buone facevo dei lunghi giri larghi tenendo sempre gli occhi altrove.
Inutile dire che l'approccio del mio cervello è pressappoco identico, chi mi conosce un po' lo sa bene!

Ma sentivo che l'errore c'era comunque: a sposarsi e a restare soli, a fidanzarsi e ad amare, a innamorarsi e a sostenersi, a sfidarsi, a vincere e a perdere, a proteggere e a farsi proteggere. E io non sarei mai stata pronta a difendere nessuna di queste cose.
Ecco, devo dire che qualche miglioramento credo ci sia stato, ma di fondo direi che le mie difficoltà sono parecchio comparabili a queste. Non penso certo di essere l'unica, anzi, credo che molti potrebbero pensarla esattamente così.

Ok, è passata la mezzanotte da un po', tempo di leggere la prima pagina di un nuovo libro e poi spegnere la luce.

P.S. Foto del vicino-vicino, io nel mio spazio bianco.


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