sabato 16 aprile 2016

Basta rimanere in silenzio

Inteso come "è sufficiente stare in silenzio".
Avviso già che questo sarà un post ad alto tasso di giudizio e di profonda condanna per le persone che giudicano. Insomma, un controsenso assoluto.

Ho ricevuto un'educazione parecchio rigida, dovuta a un'età non giovanissima dei miei (per l'epoca, s'intende, ora sarebbero considerati dei genitori-bambini) e a una zona di crescita geograficamente più propensa alla chiusura. Per intenderci, sono nata in campagna e quando ho traslocato, a inizio adolescenza, sono andata a vivere in un posto servito da un autobus ogni ora e zero treni per raggiungere il primo centro (realmente) abitato. Avevo orari ferrei per tornare a casa, sono potuta rientrare dopo la mezzanotte solo poco prima dei diciotto anni, sono andata in vacanza con gli amici da sola per il Capodanno del duemila, tre giorni prima di diventare maggiorenne, con grandissimo disappunto di mio padre.
Me lo ricordo ancora:
Mamma: "Giancarlo, dai, compie gli anni il 3 gennaio..."
Papa: "Lo so, quindi ora ha 17 anni e decido io."
Ha vinto mamma, ma che sudata!

Ho fatto le mie cazzate, più o meno gravi, più o meno irrisolvibili. Ho fatto piangere i miei, pochissime volte, ma l'ho fatto. Li ho sicuramente preoccupati, soprattutto nell'età critica tra i 14 e i 19 anni, poi mi sono calmata e la vita ha fatto il resto, provando ad ammazzarmi e riuscendo ad ammazzare mio padre.

Ho abitato fino ai 28 anni con un'insegnante, che di rigore e disciplina se ne intende assai e di genitori di merda pure.
Ho studiato tutto quello che ho potuto studiare, ho lavorato in tutti i campi che mi sono capitati, sono stata (e sono) in analisi, ho vissuto relazioni quasi sempre lunghe e importanti, ho preso facciate medio-brutte, ho avuto parecchio paura di non farcela da sola.

Mio padre era una persona complicata, soprattutto per se stessa, e di conseguenza per gli altri. Il mini paesino in cui sono diventata adulta è un posto meraviglioso ma davvero difficile, se si è deciso di avere una vita. Ringrazierò sempre mia madre per avermi accompagnata a prendere il treno mille volte e la mia pazienza infinita per aver atteso ore autobus in perenne ritardo (e che spesso non arrivavano proprio).

In tutta questa fatica, che per me è sempre stata normale routine (e questo, fortunatamente, è un bagaglio di inestimabile valore, che mi fa sopportare e supportare scioperi e disagi cittadini senza fare rumore), io non mi sono mai sentita giudicata male. Né dalla mia famiglia (intesa come mamma e papà) né dai miei vicini più stretti. Quando ho iniziato a percepire che per me era il momento giusto me ne sono andata, consapevole che le cose cambiano, diventano altro, spesso peggiorano a causa del mondo che va avanti e non possiamo fare nulla, se non accettarle.

Non sempre mia madre e mio padre hanno apprezzato le mie scelte, mio padre a volte nemmeno le ha viste, preso com'era dalle sue difficoltà. Di certo non si sono mai permessi di farmi sentire sbagliata per quello che ero e che volevo fare.

Ora, sempre più spesso, non faccio altro che trovare cattiveria e soprattutto giudizio in tutte le persone che incontro. Sia chiaro, giudicare giudichiamo tutti, chi più chi meno, ma giudicare sempre e comunque... quello no, non lo capisco.
Non ne comprendo la necessità, non ne vedo lo scopo, il tornaconto, in particolare quando si tratta di parentela, di genitori-figli e figli-genitori. Le scelte di un figlio sono le sue, lo sono quando ha tre anni come quando ne ha trenta, con la differenza che a tre anni è compito di un genitore guidare il bambino nella scelta meno pericolosa, più "buona" per lui e per la sua salute; non necessariamente per la sua felicità, perché un errore che ci rende un po' tristi non ho mai pensato sia un dramma, piuttosto credo possa diventare un insegnamento. Se questo è il ruolo di una mamma e di un papà quando il figlio ha tre anni figuriamoci quando ne ha trenta e prende decisioni autonome e personali, come deve essere. Magari sono scelte distanti da quello che ci si aspetta, a volte sono opposte, ma non capirò mai cosa spinge un genitore a giudicarle, giudicarle e giudicarle ancora. Comprendo di più il taglio netto, la presa di posizione definitiva. Il giudizio perpetuo e sfiancante, per chi lo dà e chi lo riceve, proprio non lo capisco.

Questo discorso vale anche per gli amici, che si trattano male, si disprezzano in (nemmeno troppo) segreto e continuano a cercarsi non si sa bene perché, o per i conoscenti che sorridono in loop e intanto pensano le peggio cose possibili sul conto della persona a cui hanno rivolto un gioioso quanto falso saluto. Si fanno scelte, si hanno idee e sentimenti, si prendono posizioni. Non mi pare né difficile né sbagliato.

Prima di tutto questo, però, credo che basterebbe rimanere in silenzio davanti alle decisioni altrui, perché più spesso di quanto crediamo nascono da un vissuto che non abbiamo non solo nessun diritto di giudicare, ma probabilmente nemmeno di provare a capire. Possiamo solo rispettarlo, stando zitti.

6 commenti:

  1. È bellissimo ,anche se si sente che sei arrabbiata...anche io come te non sopporto i giudizi, le falsità ed è giusto stare in silenzio davanti alle decisioni altrui. Un giudizio lo faccio....sei una splendida persona.ho letto il post ,ma ora lo voglio rileggere con più calma

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  2. Più gli altri giudicano più io apro il cuore e la mente e li lascio liberi di farsi domande, di capire, di accogliere. Più gli altri mi giudicano, più vado avanti per la mia strada.
    Tu sei una donna coraggiosa, cammina nel sole. (Era un pezzo della poesia per instamare, te la mando, perché era anche per te ♥)
    Ti abbraccio
    la effe

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  3. Grazie mille della poesia, spero vi siate divertite!
    Un abbraccio
    Elena

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  4. come sempre, quando ti leggo, mi emoziono.
    e ascolto la forza che esce dalle tue parole.
    ti abbraccio.
    Vale

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