martedì 22 luglio 2014

La cura

"The comfort zone is a behavioural state within which a person operates in an anxiety-neutral condition, using a limited set of behaviours to deliver a steady level of performance, usually without a sense of risk. A person's personality can be described by his or her comfort zones. A comfort zone is a type of mental conditioning that causes a person to create and operate mental boundaries. Such boundaries create an unfounded sense of security. Like inertia, a person who has established a comfort zone in a particular axis of his or her life, will tend to stay within that zone without stepping outside of it. To step outside their comfort zone, a person must experiment with new and different behaviours, and then experience the new and different responses that occur within their environment"
Questa è la definizione che Wikipedia scrive sul concetto di comfort zone.
Se si cerca in rete si trovano un sacco di altri documenti, tipo questo, che mi fa sorridere perché proprio oggi ho fotografato la tartaruga dei vicini, nella sua vaschetta in bilico sul davanzale della finestra, pensando quanto fosse dura pure per lei la giornata.
Oggi è difficile perché non sto bene, complice un ciclo-devasto e il caldo umidiccio, ho la pressione bassa e la mia lotta con la chimica è stata complicatissima fino alle due, quando finalmente ho toccato il letto e mi sono messa in salvo.
Ho aspettato il bus cercando un po' di ombra e tentando di ricacciare in gola la nausea e le lacrime che salivano alla velocità della luce senza alcun motivo.
E allora, sotto un albero polveroso, in mezzo al traffico, alla puzza e al rumore, ho scattato la foto quassù e mi sono chiusa nella mia comfort zone. Se leggo qua e là non sembra essere granché positivo il concetto di zona di conforto, perché viene immediatamente legato all'essere immobili, al non provare, al rinunciare ad apprendere.
Io non lo so, mi sembra di essere più d'accordo con Wikipedia, perché in questi mesi è l'aver trovato un'area protetta che mi ha salvata davvero. Uscire meno, uscire meglio. Parlare meno, parlare bene. Una sorta di introspezione che è stata invece un'uscita importantissima, una specie di appuntamento con me. Questa scelta, arrivata spontaneamente in verità, è stata indispensabile per la cura, io che già ero bravissima ad ascoltare il mio corpo, ho dovuto affinare la tecnica e tenermi d'occhio più del solito. In questi giorni in cui pian piano sto togliendo le rotelle è tutto più complicato e alla terapia dell'ascolto devo aggiungere, ancora più spesso, le altre medicine che da gennaio sto assumendo in dosi massicce:
- cucinare (oggi ho persino preparato la mia prima maionese, e l'unica impazzita, in cucina, ho continuato ad essere solo io!)
- leggere (due libri alla volta, con il progetto delle foto pantonelibronuovo e le recensioni puntuali)
- fare pilates (con più costanza possibile)
- cimentarmi in piccoli lavoretti fai da te (le lampadiyne ne sono un esempio)
- ascoltare musica ogni volta che posso, accostando il genere giusto al momento giusto
- dormire (tanto, spesso, bene)
- mangiare (con qualche sgarro in più ma con molta cura nella preparazione dei piatti)
- pensare (pochissimo, il meno possibile)
- scrivere (con una costanza commovente, che mi rende felice)
- andare oltre (a tutto quello che mi fa male, a tutte le persone che mi feriscono, a volte pure volontariamente)
Quindi, alla faccia delle teorie che vedono la comfort zone come un'area da cui uscire, come una restrizione che impedisce la crescita, io questa zona di conforto ho deciso che la arredo. Allegria.

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